giugno 1992 - n. 6. pag. 6 Narratori italiani La folla scrìtta e disegnata di Gianni Riotta Furio Colombo, La città profonda, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 120, Lit 17.000. Chi volesse cominciare a ragionare, in modo non episodico, sulle ragioni della rivolta che ha devastato Los Angeles, con quasi cinquanta morti, duemila feriti, cinquemila incendi, seimila arresti, mezzo miliardo di dollari di danni (6.500 miliardi di lire), la Guardia Nazionale, l'esercito e i marines a sfilare per Hollywood Boulevard e a un tiro di schioppo da Disney land, potrebbe partire da La città profonda, il saggio di Furio Colombo edito da Feltrinelli. Il volume è in realtà interamente dedicato a New York, un atto d'amore, dolore e fede per la città più energica e nervosa del mondo. E difficile immaginare due realtà metropolitane meno omogenee di New York e Los Angeles. Geograficamente, una sull'Atlantico, l'altra sui Pacifico. Una fondata da olandesi e anglosassoni, l'altra che deve il nome a spagnoli cattolici, con l'industria centrale — il cinema — inventata da magnati ebrei, una Chinatown sempre popolosa e sfruttata. New York è "città profonda", perché i grattacieli segnano Manhattan in questa direzione, e alcune strade, chiuse dagli edifici più alti, vengono dette canyons, proprio perché il vento si incunea nel budello e vi fa volare via il cappello anche in un giorno di mite brezza. Los Angeles è città piatta, di superficie (superficiale, secondo i suoi critici, che annoverano Adorno e Brecht, d'accordo per una volta), vuoi per le leggi antisismiche, vuoi per la terra che non manca, senza la camicia di forza dell'isola Manhattan. La de- scrizione migliore di questa "piattezza" ci viene ancora da Treno di panna, il delizioso romanzo d'esordio di Andrea De Carlo. Scontate le differenze, però, il saggio di Colombo, docente di giornalismo comparato alla Columbia University, è utile per avviare una riflessione sull'impressionante rivolta Edizioni Scientifiche Italiane M. D'Aniello, F. Sclafani Autorizzazioni a procedere Analisi del fenomeno nel Parlamento italiano 1948-1991 pp. 128, L. 18.000 L'analisi riguarda il Senato della Repubblica nelle dieci legislature repubblicane Maria Rita Saulle Codice internazionale dei diritti del minore pp. 894, L. 98.000 La prima raccolta di normativa internazionale in materia di minori Il calcio e il suo pubblico a cura di Pierre Lanfranchi pp. 392, L. 70.000 Il calcio inteso come componente culturale dell'Europa contemporanea Napoli - via Chiatamone, 7 dalla Città profonda troviamo una possibile diagnosi: chi vive nel ghetto lo odia, lo usa solo come dormitorio, non lo condivide come rione, quartiere, comunità, ma, al contrario, lo associa alla galera, l'emarginazione, il distacco dal resto della metropoli. Quando Colombo scrive di "mura invisibili", implica che siano il "corpo", l'identità assente si muta, come in una metamorfosi, nel gusto di marchiare il vicinato o se stessi. Le ragazze nere si piantano addosso delle unghie abnormi, lunghissime e colorate, che le portano alla squalifica in certe gare sportive o al licenziamento in ufficio, non importa, purché testimonino della loro appar- metropolitana. È sfuggita, per la distrazione creata dalle rivoluzioni all'est d'Europa, per la distrazione dei media effimeri come farfalle, per indifferenza, la grande quantità di rancore, odio, marginalità, che nelle in-ner cities americane si è accumulata nel quarto di secolo di governo repubblicano alla Casa Bianca (Nixon, Ford, Reagan e Bush). Inner city letteralmente significa "città interna" o "città dentro". E questo spiega, così scrive Colombo, "l'impressione che il fiume di folla giri in cerchio attraverso i canyons, intorno alle mura urbane che non si vedono. 'Inner city' vuol dire città povera. La gente fuoriesce al mattino presto dalla città povera, entra, come per respirare aria migliore, nel fiume di folla, e ritorna solo il più tardi possibile, la notte". Ecco una prima spiegazione del fatto più sconcertante accaduto a Los Angeles: in lacrime, più di una signora del ghetto mi ha chiesto "Perché qui? Perché bruciare casa propria? Perché farci del male?". Nella definizione di inner city offerta ben visibili a chi deve viverci dentro. Ed ecco dunque, quando la tensione finisce con l'esplodere, che non si prende d'assalto la Bastiglia dei ricchi, Beverly Hills a Los Angeles, o Park Avenue a New York, ma si infligge la ferita su se stessi. La città profonda conosce bene il processo di ricerca dell'identità, tramite un'automutilazione: "Per questo la folla non sembra interessata all'identità. Se lascia un segno, lo fa distruggendo qualcosa, sul proprio corpo col tatuaggio, sul corpo di un altro con una ferita. Altrimenti non lascia tracce". L'intera metropoli si trasforma in inner city, ghetto dei ricchi o ghetto dei poveri, uno vivibile, l'altro disperato, entrambi asfittici per mancanza di comunicazione: "In realtà la grande costruzione urbana è un aggregato fitto di inner cities, una a ridosso dell'altra, qualcuna definita quasi solo da drastici dati oggettivi (tutti coloro che vi abitano hanno una certa caratteristica razziale), le altre silenziosamente ma fermamente identificate da chi vi abita". Il quartiere diventa tenenza a un sottogruppo. I ragazzi neri si montano sui denti capsule d'oro, che spesso li costringono a subire umilianti rapine "odontoiatriche", ma che danno al loro sorriso il valore di una carta d'identità. Alcune capsule sugli incisivi portano la griffe di celebri prodotti commerciali, Ralph Lauren, Mercedes, Ferrari, Fendi: "I denti" scrive Colombo "possono essere con o senza diamanti, con o senza le scritte. Ma la scritta — che ripete quasi sempre la grande marca di qualcosa di ambito — è la rivelazione del nuovo mercato! Non compro la cosa. Sono la cosa. E lo porto scritto sul corpo". Il passaggio territorio-merce-corpo umano è garantito dall'universo del consumo, dallo scambio tra identità reale da negare, il ghetto, la disoccupazione, il vivere da "uomini invisibili", come avrebbe detto Elli-son, e identità fittizia, mutuata dalla televisione. Là è possibile diventare ricchi giocando a basketball, fare i soldi cantando o recitando a Hollywood. Là un ragazzino nero qualun- que può accedere alla gloria degli show, come Arsenio Hall, il presentatore più in voga adesso. Il mar-chietto Mercedes davanti ai canini fa da ponte tra questi due mondi: se il ponte salta, se l'assoluzione di poliziotti bianchi che picchiano un passante nero ti dimostra che il tuo posto è nel!'inner city, punto e basta, allora si impugnano le molotov e le torce contro il proprio quartiere, ghetto nel quale ci si sente confinati senza speranza: "Nel mondo America il corpo di un individuo è il punto di riferimento che conta e infatti quasi tutto quel che si vende riguarda l'arredamento del corpo. Dalla stazione della subway fino alla porta girevole del grattacielo, si capisce che tutto potrebbe smettere di funzionare in ogni momento, che nessuno ha fiducia in niente. Ma il corpo deve restare integro. E allora, oltre ad avere i suoi riti, le sue palestre, le sue terapie di manutenzione e di sostegno, ha anche i suoi monumenti, gli unici monumenti della città". La strategia assunta da La città profonda è quella del Baedeker. Davvero — lo ha scritto Stefano Cingola-ni recensendo il volume sul "Corriere" — il turista intelligente può infilarsi il libro in tasca, prima di visitare, per la prima o la centesima volta non importa, Manhattan. La sua bellezza deriva dall'amore, represso ma evidente, che Colombo nutre per New York, città che offre a chi la abita enorme energia, chiedendogliene però in pegno altrettanta: resta sempre il dubbio se il salto sia attivo o passivo, un'ansia e un amore che percorrono queste pagine, incanalate dall'analisi e dall'occhio — freddo per dovere — dell'inviato. Una recensione a parte meritano le tavole di Tullio Pericoli che illustrano il saggio. La relazione del pittore con la città è opposta a quella dell' autore. Evidentemente attratto dal richiamo di Manhattan, Pericoli vi sfugge da anni. Invano il "New York Times", che pubblica i disegni dell' artista italiano nella sua pagina dei commenti, ha tentato di persuadere Pericoli a trasferirsi in città, per un periodo di lavoro. Dopo affettuosi seminari con gli amici, Pericoli nicchia e si nega. Ma la sua visione della città, dinamica e vertiginosa, una New York vista come da Dino Campana, emerge dai disegni: grattacieli grippati come pietre di Brancusi, avenues affollate da formichine come in un vecchio film di Capra, le streets che improvvisamente diventano corsie da sorpasso, in quell'ebbrezza che coglie a New York, quando ti sembra di essere, andando al lavoro, uno Steve McQueen con colonna sonora di Vasco Rossi. Grattacieli senza facciata, il Chrysler cancellato dalla gomma, testimoniano di quanto in fretta Pericoli abbia capito l'annullamento delle identità e infine la tavola più bella, pubblicata a pagina 43: New York che si apre come una vallata, e la folla si incanala paziente al centro, tanti individui, ma come di botto felici di essere insieme. Per ora un'utopia: viva l'utopia.