riNDICF DE.VESEBb giugno 1992 - n. 6, pag. 7 Narratori italiani H fantasma della laguna di Gabriella Maramieri Paolo Barbaro, Ultime isole, Marsilio, Venezia 1992, pp. 157, Lit 25.000. Quel gusto della lettura che si accompagna all'idea di fuga verso territori in cui è possibile vivere suggestioni altrimenti negate nell'esperienza quotidiana, trova negli ultimi racconti di Paolo Barbaro una conferma che va oltre il comune senso della letteraria avventura: Ammiana, Basilia, Costanziaca, Isola dei Mani, Eraclea... sono i nomi mitici "senza più terra di riferimento" delle isole sprofondate, nomi carichi di magia, duri a morire, tanto che ognuno nella laguna "parla della sua isola perduta come se continuasse a vederla", come se il significato di ogni esperienza consistesse nel mantenere intatto il senso dell'avventura, nel coniugare i ricordi veri ai luoghi (ormai) immaginari i cui nomi sono "sovrabbondanti sulle cose reali". Al culmine di una macerata ricerca espressiva in cui si stemperano esperienze insolite nella formazione umanistica del letterato medio italiano, lo scrittore veneziano d'adozione riprende in Ultime isole l'inconfondibile timbro delle prove d'esordio (Giornale dei lavori, 1966 e Libretto di campagna, 1972, pubblicati entrambi da Einaudi) che lo ascrissero subito all'ambito di quella speciale narrativa amata da Vittorini, innestata in un altro mestiere, animata dal sangue vivo di materiale "spurio" assolutamente originale e, nel caso di Barbaro, contrassegnata dalla precoce intuizione che la tecnica rappresenti "nel bene e nel male, l'avverarsi di tutti i nostri sogni e incubi": da qui, la responsabilità dell'uomo di gestire la paura della morte, di convertire l'incubo in sogno, attraverso la conquista di nuovi territori del sapere, nonostante la storia dell'evoluzione umana sia disseminata "di isole pronte ad affiorare, travolgere e sparire". E i primi romanzi di Barbaro traevano forza dalla vita dei cantieri dove l'autore ha esercitato per anni la professione di ingegnere. Costruiti sulla base di articoli scritti per "La Stampa" nell'arco di cinque anni (raccolti in Lunario veneziano, 1990), le storie di Ultime ìsole — tre racconti intervallati da due parentesi di riflessione aperte dalla viva voce dell'autore — grondano della contraddittoria bellezza del paesaggio di laguna e, soprattutto, dell'incessante ricerca, ad opera delle bizzarre creature che la abitano, di un punto fermo da cui osservare il flusso del mare: in Settesabbie tutto è avvolto nel velo di incertezze giovanili dei due protagonisti che, solo imparando a lacerare la nebbia protettiva del mondo incantato dell'isola, trasformano l'incarico di riparare un faro andato distrutto nella seconda guerra mondiale e l'incontro con le due figlie del vecchio guardiano del faro, in preziosa occasione di crescita personale; i labili confini dell'isola ("l'acqua penetra tutto, poveri noi"), l'oscillante umore di Aurora e Betta diventano così l'esatta rappresentazione di un'età in cui sogno e realtà possono talvolta coincidere. Le immagini a cui Barbaro ci ha abituati conducono a una sorta di smarrimento visivo dove alla concretezza dei fatti, su cui poggia il tessuto della storia, fa da controcanto l'indeterminatezza della visione, il progressivo svelarsi delle cose nell'incerta luce dell'alba o del tramonto. Anche in Isola delle polveri il mondo evocato si illumina non appena il sole si spegne, lasciando emergere un ordito narrativo irregolare dalla cui trama filtra in controluce la fisionomia di strane creature "anfibie", eternamente "divise tra terra e acqua". Nell'effimero scenario della laguna, dove ogni evento, nel continuo mescolio tra liquido e solido, si svolge sul filo del transitorio, non appare cogli olmi, ora coi gelsi lagunari", in una fusione panteistica da cui riaffiora il mistero della vita pretecnologica, un'età preumana in cui "le creature del cielo e del mare, e con loro i ragazzi e le ragazze, si confondevano in un'unica vita: spinti da una tremenda energia che correva dagli uni agli altri...". Una "vigorosa" concezione dell'esistenza, che in molte pagine si unisce all'appassionata difesa delle forze primigenie dell'uomo, all'irriducibile tendenza avventurosa a spingersi "oltre" con la forza dell'intelligenza spesso mortificata, in- vece che potenziata, da un impiego non selezionato della tecnica. Ma forse non tutto è perduto: proprio da un luogo dove sta crescendo un'orrenda foresta di scarichi industriali, può partire la conquista di un'era nuova, il canto futuro dell'uomo in cui sembra, come giustamente dice Mario Luzi nell'introduzione, "che l'arpa suoni da sola per effetto di una brezza sottile che è come il vento del mondo". Dissegnante e saltimbanco di Stefano Borgarelli Domenico Starnone, Fuori registro, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 133, Lit 10.000. "Per ultimo: 'io' non sono io. Niente di ciò che ho raccontato qui mi è realmente accaduto. Se fatti e persone dovessero sembrare reali, la colpa è tutta della realtà". Con questa avvertenza si chiude la raccolta di racconti ambientati in quel mondo scolastico grottesco e stralunato che già aveva dato materia a Starnone — professore d'italiano in un tecnico di Roma — per l'esilarante Ex cattedra. Ma l'autore approfitta a oltranza, ■ in controluce, dei panni del protagonista. In Piano ad esempio, lo svagato insegnante d'italiano che non si rassegna a presentare il piano annuale di lavoro al preside, ha la stessa età di Starnone: '"E allora? Consegni questo piano. Che ci vuole? Lo sa come si fa. Da quanto tempo è nella scuola?' Ho risposto: 'Dalla prima elementare. Quarantadue anni. Sono del '43'". Chissà se la comicità delle situazioni vissute dal protagonista agisce nello stesso modo in tutti i lettori possibili. Forse no. Forse avrà più sicura presa su chi ogni giorno entri in un'aula scolastica per fare un mestiere che Freud poneva tra quelli impossibili. Su chi potrà mettersi a sua volta nei panni di un eroe tragicomico della categoria, ora goffo ora audace. Capace di trasformarsi in saltimbanco, pur di vincere nel gioco della seduzione. Di tenere nella sua orbita discenti pronti in qualsiasi momento a rientrare nella loro galassia. Come accade in Travestimenti, dove il protagonista si scopre parodiato da un'allieva abilissima che in sua assenza, a beneficio della classe "salmodiava sonnolenta: 'La poesia pascoliana è densa di agghiaccianti dettagli da obitorio... '. Poi ha finto un respiro mozzo, si è fermata apoplettica e ha rantolato: 'Da obi- torio, sì'". Qui la trovata da saltimbanco "...ho afferrato uno zainetto vuoto e me lo sono sistemato sotto il maglione per farmi un seno di belle speranze. Quindi mi sono piegato un po ' sulle ginocchia per significare: 'Tamburrano è tracagnotta'... La classe, superato il disorientamento iniziale, ha dato pugni sui banchi, calci nell'aria, sghignazzi". Aspetti consolatori di una narrazione terapeutica, in primo luogo per chi salda con il filo delle digressioni — da un racconto all'altro — la scelta della nevrosi ex cattedra con quella ex letteratura: "Non so che faccia ho fatto" , dice il narratore alla fine di un gioco dei prefissi fatto in classe, dove intuisce di non potersi sottrarre all'etichetta di "dissegnante" nemmeno lui, così democraticamente ludico... Qui un piano semovente ruota di colpo, spostandoci nella bottega dello scrittore artigiano: "Uno dei problemi del racconto in prima persona è che non puoi mai descrivere l'espressione che hai". Ma terapeutica per il lettore-insegnante sarà l'implicita rivendicazione che percorre tutti questi racconti. Del diritto di cittadinanza di un tempo "altro" da quello dei rituali stantii della scuola. Tempo solo per convenzione di ruoli urgente presso l'adolescente: "Questa mattina mi sono distratto e ho cominciato a fischiare in classe... A sentirmi mi sono interrotto con un sussulto. Ho temuto che qualcuno mi gridasse: 'Manigoldo, non sì fischia in classe'... Ho provato un terrore che sapeva di gomma per cancellare, pennino Cavallotti, calamaio, carta assorbente". Così in Allor si dà luogo alla libera associazione per ritrovare i primi anni di scuola. Nascosti tra le pieghe di quelli recenti, vissuti da "insegnante". Rivelati dai lapsus, dagli atti mancati che inceppano la giostra scolastica. Registrati fuori registro. dunque strano il successo dell'operazione sponsorizzata da una multinazionale con cui l'isola viene sollevata di venti centimetri per mezzo di potenti macchinari. Ma questo fantasioso intervento tecnico non costituisce l'unica sorpresa del libro. Passeggiando sul filo rosso della memoria dell'autore, può capitare infatti di incontrare il pittore dal doppio soprannome Canaletto-La Guardia, che vive lungo i canali facendo ritratti ai turisti; se invece si prendono le calli, ci si può imbattere in Fortunato Goldoni, poeta strampalato che stampa da sé i suoi versi, oppure nella folcloristica schiera di personaggi minori della Venezia di Barbaro, tutti contrassegnati dalla maschera concreta del soprannome, eppure sempre sul punto di cambiare i connotati. Ma il tipo che forse meglio incarna le prerogative mimetiche di questa speciale natura dal "moto ineluttabile tra grigi solchi melmosi è il protagonista "perfettamente mimetico" di Tutta una vita: Valerio, "uomo, gatto, pesce, uccello" che si confonde "ora AI LETTORI Cari lettori, chiediamo la vostra collaborazione per neutralizzare gli effetti di un piccolo incidente tecnico, che altrimenti rischia di risolversi in un danno per noi molto grave. Il questionario allegato al numero scorso dell'"Indice" che vi avevamo pregato di compilare e di restituire alla Abacus, era contenuto in una busta preaffrancata che per errore è stata incollata in fase di allestimento. Voi dunque siete stati costretti ad aprirla e forse a strapparla irreparabilmente. Se così fosse stato — e se non avete già provveduto di vostra iniziativa — vi preghiamo di usare un'altra busta, di applicarvi un francobollo da 750 lire e di indirizzarla a: Abacus -via Carlo Torre, 39 - 20143 Milano. Se invece la busta preaffrancata è stata danneggiata solo sul lembo, tanto da non poter essere chiusa per incollamento, vi consigliamo di lasciarla aperta ma di utilizzarla ugualmente. Mai più ombra di Anna Nadotti Luisa Pérez-Pérez, Il generalissimo, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 60, Lit 12.000. E proprio vero che per dire l'essenziale di una storia vissuta possono bastare poche parole. Forse l'autrice ha impiegato un tempo lungo per trovarle, queste parole, e per scrivere infine di sé con la brevità scarna e concisa che hanno talvolta i bambini quando si trovano a dover riassumere in fretta un'avventura, quasi temendo che l'interlocutore possa distrarsi. Cosi Luisa Pérez-Pérez sceglie la dimensione ridotta di questo suo primo libro per raccontarci l'avventura che è stata la sua vita, dall'infanzia in una piccola isola delle C'anarie all'ombra del padre amatissimo — governatore militare del Sahara spagnolo, deportato nel 1936 per non aver voluto giurare fedeltà a Francisco Franco —, alla giovinezza in continenti diversi all'ombra del marito — un ingegnere torinese — fino ad approdare all'ordine sorvegliato e geometrico del capoluogo piemontese, dove quella stessa bambina, diventata nel frattempo madre di quattro figli e a cui ripetutamente si è tentato di imporre contegno e obbedienze, accetta l'età adulta, ma senza perdere la vitale estraneità dell'infanzia: "Una cosa l'avevo capita, non dovevo dimenticare chi ero, perché nessun altro sapeva di me e potevo perdermi per questo. Sarei rimasta fedele alla bambina interrotta", e ancora: "La mia storia me la dovevo di continuo ripetere, altrimenti la perdevo". Quel che colpisce, nella storia che ci racconta Luisa Pérez-Pérez, nel suo saper cogliere ogni opportunità di formazione, è l'ostinata, assoluta fedeltà a se stessa, che si traduce in una scrittura determinata e forte, in passaggi rapidi dal dentro al fuori, come se il suo rapporto con la realtà — un tempo mediato dal padre che "ai propri figli, alla nascita, aveva regalato un paio di ali perché volassero" — fosse il prodotto diretto dell'irrinunciabile rapporto con se stessa, con le fantasie che l'hanno nutrita nell'infanzia, con la magia del deserto cui allude il suo nome tuareg Wai-ta, con gli spazi circoscritti eppure illimitati di quell'ossimoro d'isola in cui è cresciuta, spazi che le rendono intollerabile il cerchio angusto di una quotidianità spacciata per realtà vera, in cui l'adultità dovrebbe esprimersi per stereotipi. Insorge, "la bambina interrotta", malcerta ancora nelle sue due lingue, "... la vita vera no quiero verla\", ma sceglie di uscire dall'infinito presente dell'infanzia. Ha resistito a molti "generalissimi" e, a dispetto dei decaloghi di comportamento e degli sguardi severi, intende essere una donna coerente con la propria storia. Ai suoi figli trasmette la libertà che si porta dentro, impara l'italiano, e scrive, finalmente scrive, con la stessa allegra naturalezza con cui nell'isola fischiava: "Era più forte di me, sapevo farlo bene, imitavo il canto degli uccelli e inventavo delle melodie... Mio padre non ci riusciva, io invece sì. Il mio fischio era chiaro e acuto e avrei potuto dire qualsiasi cosa con il mio fischio". Solo a sua madre, nelle due pagine del bellissimo epilogo, riserva con dolcezza gli occhi ciechi della do dicenne. Non vuol vederla mentre si allontana sottobraccio alla vedova di un generale nella hall di un residence per le famiglie dei militari di una Spagna ormai riconciliata.