N. 3 pag. 32 wm Idei libri del mese| che Croce definiva "le forze centrifughe del Novecento" era racchiuso in queste affermazioni: "L'agnosticismo — aggiungeva Rosselli — come il neutralismo, non ha mai conquistato nessuno; e il pacifismo in tanto può sollevare entusiasmi in opposizione a una guerra esistente in quanto si trasformi in una guerra alla guerra, in guerra civile". Eccola la formula fatidica, ritornata oggi di grande attualità dopo le considerazioni di Claudio Pavone sugli aspetti di guerra civile assunti anche dalla Resistenza italiana, ed ec-cone le "premesse" logiche e politiche. Quando Rosselli scriveva, nel 1934, Hitler era appena salito al potere ma aveva subito contribuito a rendere la pace "quello che fu sempre nella storia: uno stato negativo e precario, una parentesi tra due guerre, una guerra, come Clausewitz diceva, che continua sotto forme mutate". In questo senso la guerra era assolutamente inevitabile. "Non puntiamo sulla guerra — scriveva Rosselli —. Constatiamo che la guerra viene. Non riusciamo a far nostre le illusioni di Henderson e di gran parte della sinistra europea. Un solo modo esiste per scongiurarla: prevenirla. Prevenirla con un'azione risoluta, con un intervento rivoluzionario che nei paesi dove il fascismo domina rovesci le parti nella guerra civile". La guerra civile come guerra alla guerra e contemporaneamente come scelta di campo, rifiuto sia del pacifismo che del vecchio neutralismo. Nella contrapposizione con Hitler, il pacifismo veniva misurato non sul piano dei principi morali ma nella concretezza dei risultati ottenuti. In un suo scritto ancora inedito, riferito proprio ai ricordi degli anni tra le due guerre, Vittorio Foa confrontandosi con il pacifismo, la democrazia, e gli altri grandi temi della vigilia di guerra e poi della guerra vera, ha avanzato alcune considerazioni in questo senso esemplari: "avevamo messo a raffronto la grande conquista socialista, in Francia, delle quaranta ore di lavoro la settimana, attuata nel 1936, con le cinquantasei ore la settimana lavorate dai tedeschi per preparare una guerra di annientamento... Potevamo discutere di tutto, di libertà e democrazia e socialismo ma la priorità era una sola; resistere a Hitler e Mussolini... Nel '36-'39 l'appoggio dell'Urss ai repubblicani nella guerra civile spagnola cancellò la critica all'assolutismo sovietico". C'era più pacifismo nelle lotte degli operai francesi che riducevano le produzioni belliche che non nelle predicazioni di Capitini. Questo il senso dei due esempi di Foa. Siamo nel pieno della "morale eroica", nel luogo storico in cui si sono formate identità "dure e arcigne" che impararono in quegli anni la necessità della scelta di campo, costi quel che costi. Allora, con il rifiuto dell'ideologia, questo ostinato, laico pragmatismo condusse un'intera generazione lungo i sentieri infidi dell'alleanza con lo stalinismo, li obbligò a dimenticare l'orrore nel nome di una lotta a un orrore più grande. Fu in larghissima parte una scelta obbligata. Ma oggi? Veramente si presentano tutte le condizioni che guidarono Rosselli a rifiutare la pace identificandola con la capitolazione? E soprattutto quei fermenti di attivismo e di impegno civile che affiorarono nel rifiuto delle posizioni pacifiste appartengono ancora allo schieramento di chi oggi vuole o solo giustifica la guerra? Sembra proprio il contrario, con, da un lato, schierato chi accetta lo stato delle cose presenti e usa la guerra per difenderne appassionatamente l'esistenza; dall'altro chi non ha ancora rinunciato ai sogni e alle utopie millenaristiche e lotta per la più antica di tutte, la pace. Un comunista di frontiera di Gian Giacomo Migone Pietro Ingrao, Le cose impossibili Un'autobiografia raccontata e discussa con Nicola Tranfaglia, Editori Riuniti, Roma 1990, pp. XXXIII-216, Lit 26.000 (con una videocassetta a cura dell'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, regia di Ansano Giannarelli). Consiglio al lettore di non rinunciare all'uso della videocassetta in cui Pietro Ingrao racconta la sua vita. Nel libro il testo scorre, la sua lucida razionalità si legge d'un fiato, anche perché Nicola Tranfaglia riesce ad essere incalzante, senza mai cedere alla tentazione di farsi protagonista. Eppure, l'immagine e la viva voce di Ingrao riescono a esprimere l'uomo nella sua integrità. Un uomo capace di argomentare le sue convinzioni, per quanto radicate, senza mai rinunciare al dubbio dell'intelligenza. Ingrao è così sicuro di sé da essere capace di dire: ho sbagliato; addirittura di confessare un sentimento vicino alla vergogna per qualche atto ("Feci un brutto articolo di commento all'uscita di Giolitti dal partito", dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria; "... sbagliai seriamente" a votare per la radiazione del "Manifesto"), per non parlare dell'autoironia con cui si valuta come tattico della politica ("Del resto, come 'capocorrente' valgo proprio un fico secco"). E invariabilmente generoso con gli avversari politici e con le persone da cui dissente. Basti dire che in quest'intervista, concessa nel momento di maggior tensione di un conflitto che riguardava l'identità del partito a cui ha dedicato la sua vita, ricorda tutte le occasioni in cui, in passato, Achille Occhetto si era comportato in ma- Chi non fa la riforma, l'aspetti di Loredana Sciolla La non decisione politica. La scuola secondaria tra riforma e non riforma. Il caso italiano a confronto con altre esperienze europee, a cura di Luciano Benadusi, La Nuova Italia, Firenze 1989, pp. 261, Lit 25.000. Questo volume viene a colmare una lacuna nella letteratura sociologica sulla scuola italiana, che finora ha preferito concentrarsi sui temi della selezione scolastica, del rapporto scuola-occupazione, degli insegnanti e degli studenti. Le politiche scolastiche, piuttosto trascurate dagli studiosi italiani, hanno invece ricevuto ben maggiore attenzione nei paesi anglosassoni: negli Stati Uniti è stata perfino istituzionalizzata nelle università come disciplina specialistica la Educational Policy. La questione di polìtica scolastica analizzata — la riforma dell'insegnamento secondario — è tra le più importanti che si siano poste in tutta l'Europa occidentale dal dopoguerra ad oggi. In Italia, dopo essere stata per anni al centro di vivaci dibattiti e polemiche non solo nelle aule di Montecitorio, sembra attualmente caduta nel dimenticatoio. Opportuna è dunque la pubblicazione di questo libro che ci riporta alla memoria, ricostruendolo nelle sue fasi storiche e nei suoi meccanismi decisionali, l'iter travagliato e inconcludente che fa della riforma della scuola secondaria superiore "uno dei più clamorosi casi di fallimento del riformismo all'italiana". Il fallimento non riguarda l'effetto di una politica, ma lo stesso processo decisionale, per cui — secondo le parole del curatore — più che di una ' 'riforma sbagliata", come nel caso della sanità, si tratta di una "riforma mancata". Di qui l'efficace titolo del libro: La non decisione politica. Il volume si propone di enucleare i fattori di questo fallimento utilizzando un metodo stori-co-comparatistìco, mettendo cioè a confronto il caso italiano con altri tre casi nazionali: svedese, inglese e francese. Se si considerano ì risultati raggiunti, i diversi paesi si collocano lungo una scala che vede al primo posto la Svezia e all'ultimo l'Italia, preceduta di poco dalla Francia. Nel caso della Svezia — analizzato da Piero Zocchi — il policy process della riforma del- l'istruzione di base inizia negli anni quaranta e termina nel 1962, mentre quello della secondaria superiore termina nel 1971 ed è caratterizzato da un sostanziale equilìbrio tra programmazione centralizzata e autonomia delle forze locali. Nel caso inglese — ricostruito da Gianfranco Rescal-li — il "ciclo della politica" di riforma dell'istruzione secondaria inizia negli anni cinquanta e si conclude alla fine degli anni settanta, ed è connotato da un carattere fortemente decentrato, mentre il progetto iniziale della scuola comprensiva, di una scuola cioè che unifichi i diversi canali dell'istruzione superiore, sembra attualmente lasciare spazio a innovazioni di segno opposto. Il sistema scolastico francese — indagato da Serena Fanelli — pur avendo vissuto nell'ultimo decennio trasformazioni di notevole portata tra cui la riforma della secondaria inferiore, non ha ancora avuto, analogamente a quello italiano, una riforma della scuola secondaria superiore. Il caso italiano, infine — approfondito da Luciano Benadusi —, rivela una situazione paradossale: mentre la riforma della scuola media obbligatoria è stata rapidamente condotta in porto fin dal 1962, non sono bastati venticinque anni a varare una qualsiasi riforma della secondaria superiore. L'iter stesso della mancata riforma delle superiori ha un carattere paradossale e non privo di ironia: il processo politico parte da un'ipotesi di scuola unificata che, se realizzata, sarebbe stata la più avanzata in Europa, e si chiude senza nemmeno riuscire a fare approvare un elevamento dell'istruzione obbligatoria a livelli ormai da tempo raggiunti da quasi tutti i paesi europei. Le cause dell'insuccesso italiano sono numerose e si sono sommate l'una all'altra. Benadusi ne evidenzia quattro principali. Innanzitutto l'instabilità politica; in secondo luogo, il fatto che, diversamente che in altri paesi europei, la base sociale di consenso alla riforma non è mai stata molto vasta, né molto coesa, né molto attiva. Un terzo fattore negativo è stato la forte conflittualità — e l'incapacità di mediazione delle forze politiche — per cui si è verificata Tamara realtà che "tutti hanno ostruito tutti"; infine lo stesso prolungarsi dei tempi di adozione, che rende obsoleti i progetti attorno a cui si discute. mera coerente con la successiva "svolta" (rispetto a cui, naturalmente, esprime il suo dissenso nell'ultima parte del libro). Per queste ragioni, se fosse un medico, gli affiderei con fiducia la vita di una persona vicina. In quanto uomo politico, consiglierei di ascoltarlo sempre con attenzione, pensandoci tre volte prima di dissentire da lui. Come storico di se stesso, Ingrao usa la propria testimonianza per ricostruire e interpretare il contesto in cui essa si colloca. Un futuro biografo di tipo anglosassone, che avesse l'ambizione di ricostruire minuziosamente la sua vita pubblica e privata non troverebbe molto materiale in questo volume, se non per quello che indirettamente, al di là delle sue intenzioni, rivela del suo autore. Invece, lo storico contemporaneo troverà non solo elementi nuovi, ma anche interpretazioni illuminanti su alcuni nodi decisivi: le motivazioni che spinsero una generazione della sinistra ad aderire o a tollerare lo stalinismo; la dialettica togliattiana, soprattutto nei suoi rapporti con il partito; la svolta mancata del 1956, con il XX congresso del Pcus e l'invasione dell'Ungheria; il tentativo mancato di introdurre elementi di democrazia nel Pei, di cui fu protagonista lo stesso Ingrao all'XI congresso, e che sboccò nella radiazione del "Manifesto"; la difficoltà del gruppo dirigente di comprendere il '68 e gli anni successivi di grandi rivolgimenti, per non parlare del terrorismo. Chi si è accontentato delle caricature di comodo di Ingrao e della sinistra comunista, che una stampa quasi unanime ci ha propinato in questi mesi, ha di che restare sorpreso. Naturalmente osservatori più attenti e partecipanti meno faziosi e strumentali della politica italiana sapevano e sanno perfettamente che una parte della sinistra comunista, precisamente quella che fa capo a Ingrao (anche se Ingrao a sua volta si chiede chi sono e che cosa vogliono gli "ingraia-ni" — "quelle volte in cui siamo andati a contarci, io ne ho trovati pochi..."), almeno dopo la morte di Togliatti ha avuto un ruolo di punta nella ricerca di spazi di libertà all'interno del partito, nel tentativo di introdurvi i rudimenti della democrazia. Anche se Ingrao, con la solita disarmante sincerità esclama: "Al Congresso di Firenze fui troppo unitario. Quanta fatica ho fatto io stesso a praticare la pubblicità del dissenso!" Ingrao afferma di non essere "integralista, come qualcuno è andato dicendo, ma piuttosto un uomo di 'frontiera'. Certo, da comunista testardo, ma sempre pieno di curiosità verso gli altri". Chi lo ha seguito e lo segue, in certe sue incursioni nel mondo della sinistra cattolica e non violenta, o dell'ambientalismo, o del femminismo, è portato a dargli ragione. Tuttavia, anche istituzioni fondamentalmente integraliste sono popolate da persone che tali non sono e che sono disposte a difenderle, "perché la battaglia bisognava condurla dentro". Verrebbe la tentazione di concludere: "Nulla salus extra eccle-siam". Invece, per Ingrao, che non vuole "correre dietro alle nuvole", ma "capire" per "prendere iniziative", è decisiva l'efficacia politica. Per questo non è interessato a piccole formazioni politiche, a salvarsi l'anima. Per questo, qualche mese or sono, ad Arco, ha dichiarato che sarebbe rimasto nel Pds, insieme con i suoi compagni. Ma è anche per questo che ha subito lo stalinismo e la sovranità limitata della sinistra italiana, restando dov'era. Anche a prezzo di non comprendere, ancora oggi, che quella realtà da lui accettata o subita, a tanti democratici con cui ha dialogato, come uomo di "frontiera", come "cerniera", appariva non come un errore, ma come qualche cosa di atroce. Eppure tutti i democratici europei hanno subito la guerra fredda: chi, come Ingrao, scegliendo se privilegiare, tra i due schieramenti che produsse, libertà ed eguaglianza; chi, invece, preferendo il rischio di vie isolate e difficili o la mera testimonianza.