N. 3 pag. 31 wm Il Salvagente Giustizia, libertà e pacifismo di Giovanni De Luna « sconvolti, dei corpi lacerati, troncati, divelti; di descrivere senza arretrare e senza censure culturali l'effetto della tecnica sugli uomini ("vidi feriti con porzioni di cranio strappate e il cervello pulsante sotto la cicatrice; feriti con parti della mascella asportate e nasi staccati, e lesioni di diversi nervi craniali..."). E il linguaggio del Benn di Morgue, del Céline di Viaggio al termine della notte, cui il libro ricorre ampiamente. Una parte consistente delle fonti è costituita da materiali medici e psichiatrici, cui appartiene, appunto "la contabilità empirica della mutilazione e della morte" ("polmoni perforati, cervelli schizzati fuori, vesciche lacerate, intestini scoperti: qui ci sono brandelli di tutto il corpo umano"). Il secondo punto di vista è quello del poeta, in particolare di un poeta visionario come Andreev, l'autore di Riso rosso, il cui "sguardo sembra spingersi oltre l'evento nella sua specificità, per cogliere nella forma di incubo attuale una parte della storia futura", e alle cui visioni il libro ricorre sovente. Ma è soprattutto alla figura del disertore che Gibelli sembra attribuire 0 ruolo principale. Il disertore come voce narrante della guerra e della modernità. Colui che tenta l'impossibile compito di porsi "al di fuori", e che nel vano tentativo ricupera un residuo di soggettività autentica, uno sguardo libero su una totalità che per un breve istante è da lui separata. Beninteso, il concetto di disertore è qui utilizzato in un'accezione assai ampia, per certi versi impropria dal momento che la diserzione in senso stretto, nello stato della mobilitazione totale e dell'onniper-vasività dell'amministrazione è assai difficile, residuo in estinzione di una società contadina dalle maglie lente. Si tratta, piuttosto, di una diserzione dello spirito, quale si esprime in forma estrema nel disagio psichico e nella follia (la via d'uscita soggettiva a una situazione che non consente vie d'uscita reali), ma che trova strumenti parziali e soluzioni intermedie nei mille atti di resistenza passiva, nell'imboscamento e nella finzione. Nella stessa scrittura, quando questa è allontanamento mentale e riconquista di sé ("Ecco perché lo scrivere — annota Gibelli — si presenta perlopiù non come un resoconto, ma come una forma di resistenza, come un gesto che ha la forma ora del diniego, ora dell'autodifesa, ora della fuga e, precisamente, della 'diserzione', qui non intesa in senso letterale, ma come riconquista di sé e sottrazione agli imperativi della mobilitazione e della massificazione"). Sono così gli epistolari dei soldati semplici, le lettere alle famiglie, i diari sgrammaticati l'altro reticolo documentario del libro, in cui l'autentico filtra anche attraverso il linguaggio manipolato dalla propaganda e amputato dalla censura, rivelandosi autentico proprio nella sua estraneità al contesto; nella distanza che pone tra il residuo di sostanza umana che rivela, e la pervasività del contesto bellico che l'avvolge. E che finirà, irrimediabilmente, per sommergerlo. Faremo bene a ricordarcene, ascoltando i nostri telegiornali. E potremo forse fare buon uso anche di un'altra citazione, riportata da Gibelli ancora a proposito di linguaggio, guerra e "autenticità", e tratta da Schnitzler: "Si dice: è morto da eroe. Perché non si dice mai: ha subito una splendida, eroica mutilazione? Si dice: è caduto per la patria. Perché non si dice mai: si è fatto amputare entrambe le gambe per la patria? (L'etimologia dei potenti!). Il vocabolario della guerra è fatto dai diplomatici, dai militari, dai potenti. Dovrebbe essere corretto dai reduci, dalle vedove, dagli orfani, dai medici e dai poeti". Un buon viatico, per quando tornerà la pace. Carlo Rosselli, Scritti dell'esilio. Giustizia e libertà e la concentrazione antifascista, 1929-1934, a cura di Costanzo Casucci, Einaudi, Torino 1988, pp. 338, Lit 45.000. Tra le due guerre mondiali, il moltiplicarsi degli ossimori riferiti ai grandi paradigmi di derivazione ot- tocentesca, i tentativi di sintesi o di superamento perpetrati lungo le più diverse direzioni teoriche, più che un segno di vitalità e di attualità rappresentarono la testimonianza di una crisi profonda sia del socialismo sia del liberalismo di un logoramento il cui indicatore politico più rilevante fu senz'altro la comune sconfitta delle loro espressioni politiche, partitiche e statuali di fronte al nazismo e al fascismo. Dai nuclei centrali di entrambi si staccarono schegge di riflessioni e di ripensamenti autocritici che confluirono in un'unica nebulosa dai contorni teorici molto accidentati e difficili da distinguere, un vero e proprio laboratorio di sperimentazioni, progetti, sforzi ostinati di trovare "vie nuove", sconfitte. In questo mondo magmatico e vivacissimo Carlo Rosselli ebbe un ruolo importante. Una sagace scelta dei suoi scritti nei primi anni dell'esilio è stata ora pubblicata da Costanzo Casucci in un volume che raccoglie, accanto agli articoli per i "Quaderni di GL" e per "La Liber- tà", anche documenti interventi e altro materiale di rilevante interesse culturale e politico. Sia i criteri con cui è stata organizzata la raccolta, sia l'efficace introduzione di Casucci richiamano l'attenzione soprattutto sui lineamenti da "eresia socialista" assunti allora dalle formulazioni di Rosselli. Total- mente interno al dibattito "revisionista" che in Europa si sviluppava a partire dal rifiuto dell'equazione socialismo = stalinismo, Rosselli recepì in quegli anni la parte più dinamica delle riflessioni di Henry De Man sulle nuove forme di organizzazione del capitale, approdando a un socialismo libertario, immune da dogmi, fondato sul rifiuto del burocratismo di partito e dello statalismo esasperato che caratterizzava l'esperienza sovietica. Così, allora, egli sintetizzava "per punti" il suo dissenso con il marxismo: "1) il sistema marxista implica una posizione deterministica; 2) il revisionismo ha eroso alla base la dimostrazione di Marx della necessità dell'avvento socialista; 3) la tesi socialista e socializzatrice, abbandonata come conclusione di un teorema scientifico, è stata reintrodotta come premessa di fede; 4) progressiva rottura tra marxismo revisionato e moderni movimenti socialisti; 5) ritorno, pur col decisivo apporto dell'esperienza marxista, a posizioni volontaristiche e illumini- stiche". Da queste premesse nasceva una concezione della politica segnata da elementi assolutamente tipici di quella particolarissima congiuntura storica: un'interpretazione attivistica e spregiudicata della militanza politica, con al centro "l'azione assistita dalla ragione e... illuminata dalla luce morale"; la libertà intesa "come mezzo e come fine"; una spiccata inclinazione per la spontaneità più che per l'organizzazione, coniugando la fiducia nei "movimenti" con forti diffidenze verso la forma-partito in generale e per il "partito di massa" in particolare; il tentativo di sintesi del "socialismo liberale" al cui interno far confluire "il liberalismo... come forza ideale ispiratrice, il sociali- smo come forza pratica realizzatrice". Sui tratti salienti di questa concezione politica si sono già soffermati gli studi più importanti (da Garosci a Tranfaglia) di una storiografia che si avvale ormai di acquisizioni consolidate. In questo senso non si può dire che il volume curato da Casucci vada a colmare lacune e a diradare tenebre; pure il libro si inserisce con forza nell'attualità del dibattito politico-culturale che si è acceso sui temi della contrapposizione fascismo/antifascismo e della guerra, proponendosi come punto di riferimento indispensabile per rintracciare le radici lontane di posizioni — come quelle di Norberto Bobbio sulla "guerra giusta" — che oggi possono stupire. Della contrapposizione fascismo/ antifascismo Rosselli fornì allora una chiave interpretativa svincolata dalle strettoie della politica, fuori anche dalla logica di quella "fase" dello scontro con il fascismo; una lettura antropologica prima ancora che politica, culturale prima ancora che "di classe": "c'è — egli scriveva — tra fascisti e antifascisti, una differenza di clima morale, di sensibilità, che in molti agisce con una suggestione e una forza enorme che sarebbe gravissimo errore non utilizzare; è anzi essa che conferisce alla battaglia per la libertà un valore quasi religioso". A queste categorie egli ancorava un giudizio di "lungo periodo", vedendo nella lotta antifascista soprattutto l'aspetto di una lotta tra due tipi di italiani, due tipi diversi in chiave antropologica e temperamentale, destinati ad affrontarsi anche dopo che il fascismo sarebbe scomparso come regime politico. "Il fascismo — egli scriveva — sprofonda le sue radici nel sottosuolo italico; esprime vizi profondi, debolezze latenti, miserie di tutta la nazione". C'era una idea-forza alla base di quelle considerazioni: non esistono una identità e una storia nazionale senza l'energia e la fierezza della lotta; le lotte, la guerra sono esperienze costitutive nel processo di sedimentazione di una qualsiasi identità collettiva; un giudizio, quindi, apertamente positivo sul conflitto, sulla capacità che il confronto aperto con gli avversari ha di attivare le energie più riposte, le risorse potenziali che si annidano nelle pieghe della società civile. In questo senso la "contrapposizione tra italiani" può essere letta proprio a partire dalla pietra angolare del giudizio sul conflitto: come se il mondo della "morale eroica" si opponesse al quietismo attendistico, l'insoddisfazione per lo stato delle cose presenti al tirare a campare delle tante maschere popolari da Gianduja a Pulcinella, la sfida progettuale con il futuro alla fatalistica rassegnazione allo scorrere di un tempo sempre uguale a se stesso. E, non a caso, Rosselli citava a sostegno delle sue posizioni la celebre affermazione di Piero Gobetti "il fascismo è l'autobiografia di un popolo che rinunzia alla lotta politica, che ha il culto dell'unanimità, che fugge l'eresia, che sogna il trionfo della facilità, della fiducia, dell'entusiasmo". Traspariva da queste affermazioni la consapevolezza di vivere una fase "costituente" della storia che preludeva alla nascita di un mondo nuovo; il nazismo e il fascismo erano veramente considerati la fine dell'umanità. Per rinascere bisognava distruggerne tutte le premesse culturali, ideologiche, sociali, economiche. Tutto il bene era da una parte, tutto il male dall'altra. Lungo questa direzione si approdava alla considerazione della guerra come giusta e inevitabile. La generazione politica alla quale Rosselli apparteneva si era formata sulla dura lezione della sconfitta: riformismo, socialismo, pacifismo, erano riferimenti screditati dall'attendismo, dagli estenuati distinguo teorici, dall'incapacità di adeguare i propri comportamenti pratici ai tempi "del ferro e del fuoco". Rosselli, a questo proposito, riportava una splendida citazione di Turati contro la violenza: "La violenza nega la storia; la nega non soltanto nel fatto criminoso immediato, ma soprattutto per la paralisi mentale che produce, per lo spirito di servilismo, di terrore, di umiltà che produce negli uomini"; ma per aggiungere subito dopo: "la nostra generazione, plasmatasi nella guerra e nel dopoguerra, spettatrice di così grandi sconvolgimenti sociali, non riesce ahimè più ad aderire alla posizione turatiana. La rispetta, vorrebbe poterla applicare, sente in essa l'eco precorritrice di una nuova civiltà, di un sogno magnifico di fratellanza e di pace; ma la realtà triste e miserabile di questo dopoguerra europeo glielo vieta. Noi viviamo in un'epoca dura e arcigna in cui la forza storica non può affermarsi se non per via di rivoluzione e di violenza". Tutto l'universo che aveva presieduto all'emergere di quelle La retorica e il bazooka Paul Fussell, Tempo di guerra, Mondadori, Milano 1991, ed. orig. 1989, trad. dall'inglese di Mario Spinella, pp. 406, Lit 50.000. Paul Fussell è già noto al pubblico italiano per il suo eccellente volume La Grande Guerra e la memoria moderna (IlMulino, 1984), una rivisitazione di grande sensibilità della letteratura britannica sulla prima guerra mondiale. In questo suo Tempo di guerra (v. recensione di Daniele Fiorentino all'edizione originale su "L'Indice", n. 8, ottobre 1990) Fussell affronta la seconda guerra mondiale da un punto di vista ormai più statunitense che britannico e con un orizzonte molto ampio, che spazia dalle reazioni dei combattenti a quelle della popolazione civile, fino all'esame della letteratura del tempo bellico. Il suo obiettivo è la demolizione dei miti creati dalla propaganda durante e dopo la guerra, di cui Fussell contesta la dimensione ideologica e morale; con un 'ampia e tagliente utilizzazione delle fonti tradizionali di taglio memorialistico, ma anche dei film, delle canzoni, della pubblicità, il nostro autore illustra il disinteresse dei militari e dei civili statunitensi e britannici per le ragioni di fondo del conflitto e invece il prevalere in tutti di preoccupazioni assai più limitate, dalla sopravvivenza individuale nelle azioni belliche al piccolo benessere da strappare a una vita di caserma vivacemente descritta nei suoi aspetti peggiori. La polemica di Fussell è certamente utile e opportuna (anche se nella traduzione, pur accurata, si perde gran parte dei riferimenti noti al lettore angloamericano) e il volume ci sembra destinato a un successo di critica e di pubblico che ci rallegra. Tuttavia la revisione critica dei miti patriottici consolidati è condotta con un'eccessiva unilateralità fino a "ribadire che si è trattato di una guerra, di niente altro che di una guerra, perciò stupida e sadica, di un conflitto... di cui tutti avevamo vergogna" e che rappresentava "ilmassimo della devastazone fisica unita al mìnimo del significato umano" (pp. 183-84). Come su questa base fosse possibile muovere e portare a combattere milioni di uomini, Fussell non lo dice, perché gli interessa la denuncia di quanto di falso e artificioso era nella guerra angloamericana e non lo studio di questa guerra in tutta la sua complessità e contraddittorietà. Parla perciò dei problemi di efficienza e coesione dei minori reparti dimenticando del tutto quanto la sociologia militare ha scritto in materia proprio sulla base di inchieste minuziose tra i soldati statunitensi; e si ferma a illustrare una guerra così "americana" anche nei suoi aspetti negativi da suonare per il lettore europeo talvolta tanto lontana quanto quella hollywoodiana della propaganda ufficiale. Non vorremmo sembrare troppo critici: il libro è interessante, documentato, vivo, si legge bene e con profitto. Vorremmo averne di così seri e utili per la guerra italiana'. Tuttavia questa di Fussell è una brillante descrizione critica più che un'analisi dei comportamenti angloamericani in guerra; un'opera di denuncia al miglior livello giornalistico, non uno studio di straordinaria sensibilità e lucidità britannica della prima guerra mondiale. Forse il nostro torto è proprio quello di misurare quest'opera su quella precedente, anziché di apprezzarne la forza di rottura che nasce dalla combinazione dei ricordi e risentimenti del reduce e delle ricerche del grande studioso. (g.r.)