pag. 5 Il Libro del Mese Una scelta di vita e di morte mi sento come quell'innamorato cui la bella, con persuasiva ed accorata dimostrazione, abbia convinto dell'assoluta infondatezza dei suoi sospetti... la tua amicizia è per me un bene preziosissimo, fra le mie cose più care, e che soffrivo (scusa questo linguaggio cosi sentimentale), che soffrivo di vedere (a torto, m'hai dimostrato) in declino". Le scuse per il sentimentalismo fanno parte dei rapporti tra uomini come sono stati vissuti in un'epoca storica che volge al termine e che anche per questo diviene oggetto di storia; queste frasi sono fonti preziose per i nuovi studi. Storia della soggettività maschile, storia delle relazioni di genere. Le donne che appaiono nell'epistolario sono descritte con toni sempre positivi: "una gran donna", "un angelo", "una donna dinamica e ausiliaria intelligente", "donna di straordinaria forza d'animo", "le donne hanno fatto un lavoro di prim'ordi-ne", "si sono difese molto brillantemente", "con abilità e fermezza". Verso di loro gli uomini esprimono sentimenti di "ammirazione" e di "rispetto", pur mantenendo quella "concezione romana della famiglia" che spinge Giorgio a chiedere a Livio autorizzazioni sulle decisioni da prendere rispetto alla destinazione politica della moglie Giuseppina Ventre (1'"irrequieta donna" che compare nelle lettere sotto vari nomi: Pinella, Joséphine, Dame P.). Le contraddizioni sono evidenti agli stessi protagonisti; ancora una volta il tono scherzoso e l'autoironia segnalano la consapevolezza della complessità dei rapporti ("dispongo e ordino", Livio), che oggi ci interessa studiare da un punto di vista non solo storiografico. "Ammirazione" e "rispetto" reciproci sono termini che, al di là della forma specifica segnata dall'epoca storica, vorremmo portarci dietro e riformulare in maniera adeguata alle nuove relazioni di genere che tentiamo di costruire. Molte altre cose si possono serbare di questa lettura, sia per gli studi storici sia per una memoria più ampia di quella disciplinare. Tra esse, mi piacciono i toni dimessi, 0 sorriso, il pudore di certe dichiarazioni: "se torneremo, torneremo sparuti e disfatti, coi capelli bianchi (o, anzi, calvi), appoggiati a bastoni sui quali ci trascineremo" (Livio); "la forza con cui ancora sento i legami di un mondo affettivo a cui non so rinunciare mi toglie spesso fermezza ed obbiettività: il caso di un compagno arrestato e in pericolo passa per me davanti a tutte le considerazioni di politica generale del nostro partito" (Giorgio). di Norberto Bobbio Una corrispondenza come questa fra il commissario politico Giorgio Agosti (nella vita civile magistrato) e il comandante partigiano Dante Livio Bianco (nella vita civile avvocato) non credo abbia molti precedenti. Conosciamo lettere familiari, lettere filosofiche, politiche, biografiche e di costume. Ci sono anche lettere di quando si è guariti, o giorno per giorno, quando la malattia compie il suo corso. E vero che i due amici erano persone troppo letterate per non pensare, nel momento stesso in cui scrivevano, a lettori futuri. Ma se ci avessero pensato troppo forse certi giudizi talora aspri, senza peli sulla lingua, certe espressioni di simpatia e niero (il cosiddetto secondo Risorgimento), la guerra contro il fascismo per instaurare in Italia uno stato democratico, la guerra di classe degli operai, dei contadini, dei poveri contro la classe dei padroni. La scelta del movimento di Giustizia e Libertà, poi confluito nel partito d'azione, fu soprattutto la seconda: la Resistenza gnace, illuministica, antieroica della rivoluzione liberale e del Risorgimento senza eroi. Una particolare predilezione egli sentiva inoltre per alcuni combattenti della Grande Guerra, Slataper, gli Stuparich, i fratelli Garrone, nei quali uno storico come Adolfo Omodeo aveva in quegli anni scorto assai bene il lievito risorgimentale, contrapponendolo alla grossolana e ottusa violenza nazionalistica e guerrafondaia del fascismo. Dopo Usuo incontro con Giorgio, e altri giovani torinesi aderenti o vicini al movimento di Giustizia e Libertà, Livio avrebbe istintivamente allargato il proprio orizzonte dal liberalismo gobet-tiano e crociano al socialismo liberale e al fervore insurrezionale di Carlo Rosselli. Così, da quella drammatica primavera del 1940 in poi, il suo universo culturale, morale, politico si fuse di colpo e totalmente col nostro. Nell'amicizia egli poetava un soffio nuovo: un senso di generosa fraternità, una gioia di vìvere, una virile tensione di volontà. Solo più tardi, in qualche raro momento, ci parve di scorgere in luì una sottile vena di malinconia, come per qualcosa che mancasse alla pienezza della sua felice natura. A Giorgio mi legava, oltre all'avversione per il fascismo, la comune passione per la storia: in lui più seria e più dominante che in me, svagato come io ero anche da altri interessi. Aveva, giovanissimo, ereditato dalla madre sua una gran voglia di approfondire il mondo polacco. Sopravviveva ancora a Torino una tradizione di studi e di affetti per la storia e la letteratura dì quel paese, che faceva capo alla nobile figura di Attilio Begey. Giorgio vi attinse anche la simpatia per uomini come Mickiewicz, Totvianski, e attraverso costoro, Mazzini-, e risalì più tardi allo studio erudito, se ricordo bene, di Fricius Modre-vius e di Callimaco. I seguaci di Clio non possono che dolersi del suo non aver.proseguito su questa strada così precocemente e brillantemente iniziata. Ebbe spesso momenti di pessimista sfiducia in sé. Si sentiva anche oppresso dalla tri- stezza dei tempi. Si era attaccato a me, io credo, soprattutto perché, nel mio inguaribile ottimismo, cercavo di incoraggiarlo, di convincerlo del suo valore, di sostenerlo nei momenti di dubbio e di sconforto. Per dimostrarvi come, negli anni trenta, egli avesse via via maturato e approfondito il suo pensiero politico, e si fosse così preparato al supremo cimento della Resistenza, riporto alcuni passi della letterina che mi scrisse il 2 settembre 1939, il giorno dopo che le armate hitleriane avevano aggredito la Polonia, dando inizio alla seconda guerra mondiale: "Dopo la tensione dei giorni scorsi, vivo in una specie di apatia. Il pensiero va continuamente ai poveri amici di lassù [Zofia e Nina Kozaryù, il professor Pollack e altri], ormai nella tormenta... Mi pervade una fredda serenità, come un distacco dai destini individuali e del mio per primo. Dopo tanti anni di incertezze, siamo oggi alla crisi decisiva. Non credo possibile si tomi indietro, da una parte come dall'altra; né credo che a noi sarà possibile restare molto a lungo fuori dal conflitto. E ad onta di tutto, anche in una situazione così profondamente mutata, non ho dubbi sul risultato finale. Che noi, caro Sandro, assai probabilmente non vedremo: ma questo non importa molto, importa l'aver creduto in qualche cosa, anche nelle ore più scure, l'aver capito, nel disorientamento generale, l'aver sperato, quando anche la speranza era oggetto di derisione. Importa l'essere stati così vicini, così fraternamente, affettuosamente vicini in questa nostra gioventù solitaria, l'esserci sostenuti nei momenti dì dubbio ".L'anno dopo, nel 1940, nasceva la nostra grande amicìzia con Livio. Poco dopo aderimmo al neonato partito d'azione. Nei quarantacinque giorni del 43, caduto il fascismo, ci raggiunsero a Torino Franco Venturi dal confino, Vittorio Foa dal carcere, Mario Andreis da Milano, e altri più giovani di noi. Fu un raggrupparsi istintivo ed eccitato, con una volontà, ancora confusa, di agire. L'8 settembre dissipò dubbi e incertezze, e indicò l'unica via da percorrere: la Resistenza. guerra ma sono in genere di ufficiali e soldati ai loro familiari, agli amici. Una corrispondenza tra due capi di una guerra in corso che si scambiano notizie, opinioni, giudizi, sugli avvenimenti di cui sono essi stessi gli attori, è cosa rara, e tanto più preziosa in quanto fu, quella guerra, segreta, combattuta senza spettatori, senza giornalisti, senza bollettini ufficiali. Molti eventi saranno poi raccontati da testimoni e da storici. Ma solo ora dopo tanti anni veniamo ad apprendere con queste lettere che erano stati già raccontati, per lo meno in una parte del Piemonte, quasi giorno per giorno, da due protagonisti i quali per tenersi informati di quel che accadeva decisero di scambiarsi di tanto in tanto a cuore aperto le loro impressioni e opinioni e idee sì da dar vita a una testimonianza non successiva ai fatti, come accade per lo più, e per ciò stesso consciamente o inconsciamente deformata, ma immediata, senza ripensamenti o pentimenti o abbellimenti. Ben diverso è il racconto di una malattia • di antipatia, su personaggi del loro stesso mondo non sarebbero stati scritti o sarebbero stati attenuati. Tutto sommato, per lo storico che leggerà queste pagine come un documento in mezzo ad altri documenti, con il distacco del postero, vagliando il prò e il contro, meglio così. Per leggere questo epistolario come deve essere letto, senza tradirlo, bisogna riportarsi a quel tempo, al tempo della scelta. Anzitutto si trattava di scegliere tra la scelta e la non scelta (ovvero lo starsene tranquillamente a casa, appartati, nascosti, come hanno fatto la stragrande maggioranza degli italiani, lo dico, senza alcuna animosità), e poi tra le molte scelte possibili, e c'era anche la scelta di stare coi fascisti e coi nazisti, che voleva dire andare sino in fondo all'abisso, e fu per molti, quando scelta fu, ma spesso fu una necessità, una scelta disperata, fare la scelta di libertà. Ma con chi e per quale scopo? Si è parlato spesso delle tre guerre, della guerra una e trina: la vera e propria guerra di liberazione dallo stra- intesa come guerra contro la dittatura fascista per la democrazia repubblicana (il motto del partito fu, com'è noto, "rivoluzione democratica). La divergenza dai combattenti di una guerra patriottica e dalla guerra di classe non escludeva naturalmente la solidarietà nel pericolo, l'alleanza contro il nemico comune, l'ideale comune del riscatto dell'Italia dalla vergogna di una guerra combattuta agli ordini di Hitler. Fu ad ogni modo per tutti una scelta radicale, una scelta di vita e di morte, una di quelle scelte che contraddistinguono i momenti delle grandi crisi: difficile da spiegare ai giovani che non si sono trovati a vivere, per fortuna loro, in simili circostanze. Non si trattava di scegliere se votare comunista o democristiano, ma di decidere da che parte stare in una guerra spietata in cui la scelta era tra liberà e schiavitù, tra fratellanza umana e razzismo, tra civiltà e barbarie. Una scelta non strettamente politica, o di opportunità, ma etica, che in quanto tale implicava valori universali. Una scelta ultima che non consente il compromesso, il tenere il piede in due staffe, ma obbliga a stare o di qua o di là. Oltre che essere sconvolgente, fu anche una scelta li1 bera, liberissima, giacché la più completa libertà sta nel non ubbidire ad altro comando che a quello della propria coscienza. Libera pur nella totale incertezza dell'esito, essendo una scelta più da etica della convinzione che da etica della responsabilità. Tanto più sconvolgente in quanto ognuno la dovette fare da solo, senza la possibilità di chiedere consiglio né ottenere protezione. Si era tornati ad una sorta di stato di natura, da cui sarebbe nato il nuovo ordine. Tali sono le premesse necessarie per leggere e capire questo libro straordinario che ci riporta alle forti passioni di quel tempo senza artifici letterari, per non essere turbàti dalla veemenza del linguaggio, dall'asprezza di certi giudizi, dalla spregiudicatezza di certi atteggiamenti, risolti il veemente linguaggio e l'aspro giudizio e l'atteggiamento spregiudicato, nella visione generale di un mon,do libero e pacificato, cui ogni persona, che non voglia vergognarsi di fronte ai propri figli deve essere fiero di aver portato il proprio granello di sabbia. Scrive Giorgio: "Questa lotta, per questa sua nudità, per questo disinteresse, mi piace. Se ne usciremo vivi, ne usciremo miglio--ri; se ci resteremo, sentiremo di aver vissuto almeno qualche mese secondo un preciso imperativo morale". In tutto il carteggio non c'è ombra di retorica (quella retorica che trionfava nelle scuole fasciste). Lo stile è asciutto, sobrio, severo, talora scherzoso, sempre sottotono', anche quando vengono alla mente nobili idee e nell'animo grandi paure. Non manca mai la consapevolezza del proprio limite, di essere soldati, nonostante funzioni di comando, di un esercito sterminato che supera i confini delle singole patrie, la cui vittoria non è affatto sicura e il giudizio dei posteri incerto. Scrive ancora Giorgio: "Per gli uni saremo dei pazzi, per gli altri dei sovversivi: a cose finite tutto il buon senso filisteo ci giudicherà con sufficienza o con avversione. L'alternativa oggi è di lasciarci la pelle in combattimento o finire al muro o in un campo di concentramento. L'alternativa di domani è di ritrovare, ignorati e dimenticati, il nostro lavoro o di doverci difendere da nuove persecuzioni, che vengono da destra e da sinistra". Giustissimo il commento di De Luna nella lunga e documentata introduzione: "La Resistenza era il momento in cui il senso del dovere si sostituisce a ogni altro impulso, anche a quello della sopravvivenza; era quella l'ora in cui si era chiamati a testimoniare il bisogno di non aver niente da rimproverarsi di fronte alla storia e di fronte alla propria coscienza. Era un universo morale adatto a tempi del ferro e del fuoco, difficilmente riadattabile alle alchimie e alle sottigliezze della normalità politica. Di qui l'ebbrezza della grande vacanza che alimenterà dopo la fine della guerra i ricordi partigiani di Livio". Dopo la vacanza si torna al lavoro abituale. Nessuno dei due entrò nella vita politica: Agosti dopo aver adempiuto per qualche tempo all'ufficio di questore di Torino, diventò dirigente industriale; Bianco, dopo aver partecipato a quella specie di precostituente che fu la Consulta nazionale durata circa un anno, tornò a fare l'avvocato.