Inedito
Personaggi di casa Lombroso
Di Gina Lombroso sono state conservate due bozze di autobiografia, entrambe rimaste inedite. L'una, Souvenirs et experiences de ma vie, che comprende solo la Première Partie. Enfance-Adolescence, fu scritta a Ginevra all'inizio degli anni quaranta, con l'intenzione di dedicarla ai due nipoti a ricordo della nonna e fu, in seguito, rielaborata perché fosse pubblicata a puntate sulla rivista "L'Illustré" (cosa che poi non si realizzò, perché essa fu giudicata di limitato interesse per un pubblico svizzero). L'altra, dal titolo Autobiografia, copre un periodo di tempo più esteso, fino alla fine degli anni venti, prima dell'esilio ginevrino. Molto probabilmente fu scritta per offrire un personale modello di autobiografia, durante il periodo in cui Gina Lombroso raccoglieva biografie ed autobiografie di donne, che potessero valere come esemplificazione delle sue teorizzazioni sulla condizione femminile.
Le pagine che seguono sono tratte aW/'Autobiografia. Come emerge chiaramente dal testo, si tratta di una prima stesura di cui, in caso di pubblicazione, sarebbe stata necessaria una revisione da parte dell'autrice.	(Delfina Dolza)
Eravamo cinque bambini: due sorelle e tre fratellini* liberi completamente di fare quello che volevamo ché il babbo desiderava crescessimo al di fuori di ogni regola convenzionale, di ogni limitazione artificiale...
Mia sorella Paola, di 18 mesi maggiore di me, temperamento audace, ribelle ad ogni convenzione, come il papà avida di conoscere il mondo esteriore e di agire, precoce, espansiva, intelligentissima, organizzativa aveva un'immaginazione sconfinata e sempre ogni giorno nuovi desideri il cui appagamento la faceva delirare di gioia, il cui disappagamento la empiva di dolore; di umore variabile ora allegra fino al delirio ora malinconica fino al pianto, amava il nuovo così negli uomini che nelle cose. Essa era l'opposto di me, carattere docile, remissivo, timido e uguale, incapace di desideri personali, impermeabile al mondo esterno i cui orizzonti erano nettamente limitati alla famiglia... Difficilmente due temperamenti opposti si potevano ritrovare in condizione di fondersi e completarsi meglio che nel nostro caso. Mia sorella Paola mi trascinava dietro a sé e temperava colla sua audacia la mia eccessiva remissività, colla sua immaginazione la eccessiva limitatezza dei miei desideri, colle sue aspirazioni la troppo salda barriera che io mettevo tra il mondo famigliare e quello esterno; io temperavo con la mia ragionevolezza, con la mia uguaglianza di carattere, la sua eccessiva saltuarietà, col mio aderire a tutto ciò che è, il suo eccessivo istinto di ribellione, con la mia passione per i famigliari la sua passione per quei di fuori.
Eravamo l'una il limite dell'altra, per questo non potevamo mai stare l'una senza l'altra cosicché il parentado, i conoscenti, a vederci sempre indivisibili avevano preso l'abitudine di chiamarci o Gina Paola o Paola Gina indifferentemente per designare una o l'altra di noi (Autobiografia, pp. 2-4).
Era venuta a Torino, quando ero in seconda liceo, la Dr. Anna Kuliscioff, una delle prime e più ardenti socialiste e femministe che fossero entrate in Italia. Ci era stata presentata da Turati e siccome era sola a Torino a perfezionarsi in ostetricia, veniva quasi ogni giorno da noi. La mamma le aveva fatto promettere che non ci avrebbe parlato né di socialismo, né di femminismo e lei non ce ne parlava; ma a delle ragazze di 15 o 16 anni non c'è bisogno di parole. Avevamo letto e tradotto una quantità di libri sul nihilismo, conoscevamo la Russia da lontano come un paese favoloso. La Kuliscioff era la prima donna che ci prendeva sul serio, tutte cose fatte per innamorarci di lei. La Paola infatti prese subito per lei una di quelle passioni.
La signora Kuliscioff si mostrava equanime per tutte e due, ma io sentivo che la equanimità era una ingiustizia, perché la Paola era infinitamente più fervente di me, e lasciavo la preminenza, della qual cosa la Paola mi era assai grata.
Ma questo a parte, colla signora Kuliscioff per quanto non ce ne avesse parlato era entrato in casa il socialismo. La Paola prese fuoco e il papà dietro la Paola. Andavamo alle sedute che si tenevano allora in specie di cantine sotteranee, dove le donne portavano i bambini in collo. Vi si discuteva seriamente dei problemi politici del giorno. Era una cosa assai impressionante. Io ero assai restia ad ammettere una teoria che mi pareva debole per molti lati. Io ero impressionata più della Paola o quanto la Paola dallo squallore che guadagnava la città, da quella lunga teoria di emigranti che si vedevano accatastati la sera nei pressi della sta-
zione, pronti a partire, non sapevano né per dove, né come, stanchi e rassegnati, il paiolo e il materasso sulle spalle, ma non capivo come il comunismo e il socialismo avrebbero potuto aggiustare queste faccende, soprattutto non ammettevo i vincoli dell'uguaglianza...
Ero restia ad ammettere la teoria, ma avevo dato il cuore a quella causa, che rappresentava in quel momento una reazione contro il governo, contro la borghesia, che non faceva niente per sollevare la classe operaia caduta in miseria atroce.
La Paola mi fece regalare dal papà II capitale di Marx. Non avevo letto mai niente di economia politica, e il libro era terribilmente difficile, così difficile che lo dovetti sunteggiare pagina per pagina, per capirlo, e leggere ogni giorno i sunti precedenti prima di andare avanti. Trovai il libro interessante, esso mi aprì un nuovo mondo che non avevo mai immaginato, la teoria della crisi soprattutto mi interessò enormemente, ma non vi trovai in esso alcuna giustificazione al socialismo. Il capitale di Marx mi pareva una critica all'industrialismo, ma esso non implicava per me come conseguenza necessaria né comunismo, né socialismo, esso implicava la fine dell'industrialismo (Autobiografia. Anni tristi, pp. 8-11).
Era il Ferrerò**, un giovane non ancora ventenne, che il papà aveva scoperto due anni prima a un banchetto offerto dagli studenti pisani in visita a Torino. In quell'occasione il Ferrerò aveva improvvisato un brindisi. Il papà aveva trovato il brindisi così bello che lì per lì aveva predetto al giovane che sarebbe diventato il primo uomo di stato d'Italia, e non s'era dato pace finché aveva potuto ritrovarlo e avvicinarlo; associarlo ai propri lavori. Il che non era stato facile, perché il Ferrerò studiava a Pisa; e non aveva lasciato traccie del suo passaggio a Torino. Fu lo Zerboglio, ricordo, che lo rintracciò, facendo venire da Pisa, dal segretario dell'Università, la lista degli studenti che avevano accompagnato in gita il professore, e che avevano assistito al banchetto.
Il Ferrerò venne dunque dal papà e il papà immediatamente gli propose di scriver seco La donna delinquente, per cui da quel giorno frequentò assiduamente la casa nostra, tanto più che la sua famiglia si fissò a Torino. Era un giovane dalla faccia pallida e magra, di adolescente non ancora completamente formato, quella del mago dalle sette leghe, dal collo troppo alto per il colletto troppo basso, dalle braccia troppo lunghe per le maniche troppo brevi, dai movimenti un po' dinoccolati. Parlava splendidamente di tutto, con una lucidità e una limpidezza singolari, ma era di una serietà altrettanto straordinaria. Da noi veniva solo gente seria, ma il Ferrerò era il più serio di quelli che avevamo visto. Mai lo si vedeva ridere, mai dire una sciocchezza, una interruzione, una esclamazione, una parola inutile; parlava limpido e chiaro; se chi parlava non era altrettanto limpido aggrottava le sopracciglia come per fare uno sforzo a lui non piacevole per ridurlo chiaro, parlava filato, dell'argomento di cui aveva impreso a dire dal principio fino alla fine; il che faceva specie a noi abituati al papà, che anche quando dettava si interrompeva ad ogni istante per veder quel che succedeva attorno... Per Ferrerò, il mondo esterno non esisteva, il cuore non esisteva... Per lui non contava che il pensiero, o meglio che la scienza, la politica, poiché parlava solo di scienza e di politica.
E poi di una esattezza era il Ferrerò, di una rigidezza e di un metodismo che ci metteva soggezione. Quando citava un libro, citava esattamente autore editore, o quando riferiva un fatto, riferiva tutto, ora giorno, e quando papà gli dava appuntamento da Bocca, sulla porta, lo ritrovava da Bocca sulla porta, né dentro, né fuori, né a guardare la vetrina, né a leggere, e se erano alle cinque, eran le cinque precise, tutto quel che faceva lo faceva metodicamente. Oltre che serio e metodico il Ferrerò era grave, ponderato e riservato. Mai una confidenza sopra di sé, sulla sua vita, sui suoi compagni, sui suoi maestri, sulle sue preferenze, sulle sue aspirazioni (Autobiografia. Vita nuova, pp. 3-5).
*I cinque figli Lombroso nacquero nell'arco di pochi anni, dal 1871 al 1877: la primogenita Paola nel 1871, Gina nel 1872, Arnaldo nel 1874, Leo nel 1876 e l'ultimogenito Ugo nel 1877. Dei tre fratelli, solo Ugo sopravvisse e divenne in seguito professore di fisiologia. Arnaldo morì di tifo a vent'anni nel4894 e Leo morì di difterite nel 1882 a sei anni.
**Gina Lombroso sposò Guglielmo Ferrerò (1871-1943) nel 1901. Storico, sociologo e pubblicista, allievo di Lombroso, Ferrerò deve la sua fama soprattutto ai cinque volumi su Grandezza e decadenza di Roma (1902-1907). Antifascista, nel 1930 si rifugiò con la moglie in Svizzera, dove insegnò all'università di Ginevra fino alla morte.