IN. 5 Pag- 5 [ Il Libro del Mese Proponiamo pressoché integralmente un profilo autobiografico scritto da Bianciardi, trentenne, per la rivista "Belfagor" (anno VII, 1952), poi ripubblicato postumo in II peripatetico e altre storie (Rizzoli, Milano 1976). Sono nato in una piccola città toscana, quasi trent'anni or sono, giusto poche settimane dopo l'ascesa al potere del fascismo, da una tipica famiglia piccolo borghese: infatti mia madre era — ed è ancora — maestra elementare, mentre mio padre, fino a qualche anno fa, cassiere in una banca. Fu licenziato brutalmente senza preavviso, dopo venticinque anni di servizio, senza alcuna pensione od altra sufficiente garanzia per la vecchiaia, un uomo sfruttato e vuotato, anche fisicamente, dal lavoro. Non mi pare che egli si sia mai reso conto esattamente dei motivi generali che possono aver determinato questo stato di cose, né che abbia saputo reagire concretamente alla palese ingiustizia che gli veniva fatta. A ven-t'anni mio padre era partito per la prima guerra mondiale (a vent'anni sarebbe poi toccato a me partire per la seconda) non del tutto convinto dell'utilità di quel gran massacro. Era tornato con un grado di ufficiale e senza un impiego, costretto ad elemosinarne uno qualsiasi, e tacitamente rimpiangendo la vita brillante degli ultimi mesi di ufficialato. (Mio padre era un uomo onesto; con scrupoli minori sarebbe divenuto senz'altro un quadro per lo squadrismo fascista, perché lo squadrismo fu un fenomeno di quel tipo, acceso "reducismo" insoddisfatto). I genitori sognano sempre per i figli quel che ad essi non è riuscito, ed in quegli anni si accentuava la tendenza della piccola borghesia a dare la scalata alla torre d'avorio della professione libera, comunque della laurea, che prometteva vita comoda, agiata e parassitaria: così fui destinato al servizio militare di carriera, sarei diventato un ufficiale di artiglieria. Nemmeno cosa difficile, del resto: questione di tempo e di tasse scolastiche, come dicevano fra sé tutti i genitori. Far l'ufficiale avrebbe significato per me vita brillante e sicura, soprattutto poco faticosa: non c'era retorica patriottica nei desideri di mio padre. Propriamente fino al 1940 non si iscrisse neppure al partito fascista, né i fascisti per questo lo molestarono; le sue opinioni politiche non andavano molto più in là di quella spicciola filosofia, molto diffusa nel nostro ceto medio, secondo la quale "la cosa migliore è pensare alla famiglia". Con questa prospettiva mi iscrissero al ginnasio, dove non trascorsi anni sereni: mia madre esigeva da me eccellenza nei risultati scolastici ed io sgobbai perdutamente per diventare "il primo della classe", e ci riuscii, senza peraltro capire niente di quello che studiavo. In questo mi aiutò validamente l'insegnante di lettere che fu un giovane garfa-gnino ignorante e presuntuoso: era un ex combattente (raccontava di essersi trovato in trincea a diciassette anni) molto decorato, religiosissimo e fascista. So ora che la sua ignoranza era pari solo alla scaltrezza gesuitica con cui si mascherava a superiori ed alunni, dietro un massiccio tendaggio di retorica romaneggiante, cri-stianeggiante e fascisteggiante. Ci insegnava soprattutto latino, cultura militare e, per una speciale concessione vescovile, religione, cioè catechismo. Parlo di lui perché non mi pare che differisca molto dal tipo di insegnante ginnasiale diffuso nelle scuole di allora (e di oggi?). Il suo latino, per esempio, era una sorta di esercizio di crittografia, con regole molto complicate e, quel che è peg- Nascita di uomini democratici gio, approssimative, con le quali si riusciva, dopo anni di fatica, a "mettere in chiaro" dei messaggi cifrati. Tutto il lavoro preparatorio, anche lo studio della lingua italiana, mirava a questo scopo; una volta poi che si era ben costruito questo mostruoso strumento, la scuola fascista vi aggiungeva la retorica della "romanità": qua- di Luciano Bianciardi nostri istruttori di balillismo. Io fui iscritto a quelle organizzazioni giovanili, non ricordo con quale grado o specializzazione, e per qualche tempo fui entusiasta della divisa, specialmente al tempo della visita di Hitler a Roma, nel '38, quando ci portarono ad un campeggio. Ma la ribellione non tardò, e fu, ca guerriera, alla maniera nazista, per intendersi, nonostante i corsi preliminari, le lezioni obbligatorie di cultura militare e tutto il resto. Del militarismo, come di ogni altra cosa, c'era solo la facciata dipinta; e questa sensazione di truffa carnevalesca mi rinasce quando leggo uno di quei memoriali fascisti o fascistoidi ora tanto gli anni grossetani aveva lacerato l'esposta psicologia dello scrittore. Il forsennato lavoro di traduzione dall'inglese, a cui Bianciardi è indotto d'ora innanzi dallo stato di necessità, fa di lui il migliore specialista del tempo e compone una tappa essenziale nella sua formazione perché gli consente di entrare in contatto in anteprima con la letteratura americana della "beat generation". Passa chiaramente di qui la vera novità strutturale del suo risultato maggiore (La vita agra, Rizzoli, 1962 e 1976), cioè la dilatazione abnorme dell'io narrante che consente una trasgressività linguistica prima ignota. Le peripezie del provinciale, incaricato di vendicare i morti di Ribolla facendo saltare il "torrac-chione" della Montecatini secondo un'idea letteraria che forse serba memoria del Conrad di The Secret Agent (1907), rendono conto dell'impossibilità del gesto terroristico, rimandato sine die dal traduttore costretto a ritmi da catena di montaggio nella capitale del boom economico. Questa progressiva spoliazione della personalità giustifica l'amplificazione della voce del protagonista dissacratore, ciangottante talora iperboli o accumuli verbali in serie nei quali l'impiego della maniera dei prediletti Kerouac e Henry Miller si mescola sporadicamente con le tracce di un gaddismo riflesso, recuperato a posteriori per screziare un cosmo frantumato ma comunque sempre riconoscibile. La triste estraneità vitale e letteraria di Bianciardi, schiacciato nella solitudine del mestiere e di varie collaborazioni di occasione (' 'Il giorno ' ', "Le ore", "Abc" ecc.) nonostante l'indubbia fortuna del libro più significativo amplificata dal film di Carlo Lizzani (1964), trova alimento nella sua storia di non rassegnato deraciné o nei processi intentatigli da due personaggi riconosciutisi nel romanzo e da altri ancora, accrescendosi per giunta con la presenza nella cultura di quegli anni del Gruppo 63. Difatti la neoavanguardia contribuisce in modo determinante a collocare al centro dell'attenzione la letteratura come tale, cui è demandata una forma di contestazione di secondo grado che fa passare in subordine quel supporto dell'intreccio esistenziale per lo scrittore maremmano invece costitutivo. Dal 1964 il disagio mai sopito si traduce in una nuova scelta umana di esilio nell'esilio, il romitaggio ligure di Sant'Anna di Rapallo (Nesci), donde Bianciardi, quasi per rendere palpabile la con- traddizione innescata, pendola sempre più spesso verso l'aborrita metropoli lombarda. L'ultima fase dell'attività dell'autore non si intenderebbe senza considerare la passione memorialistica presente nell'incisiva rievocazione della spedizione dei Mille (Da Quarto a Torino. Breve storia della spedizione dei Mille, Feltrinelli, 1960 e 1968) o di altre pagine risorgimentali (Dagliela avanti un passo!, Bietti, 1969), felici esempi di avvertita divulgazione storica, perciò eccezioni raccomandabili in un'area notoriamente depressa. Ma il Risorgimento dissacrato, in cui campeggia l'archetipico anarchismo di Garibaldi figurante anche in una monografia postuma (Mondadori, 1972), costituisce in realtà per Bianciardi il luogo privilegiato per la reinvenzione letteraria dei conflitti moderni, peraltro tutti già dichiarati nella trilogia: sicché le innovazioni si concentrano non per caso sul risvolto stilistico e formale. La battaglia soda (Rizzoli, 1964) ripresenta sotto l'etichetta dal titolo machiavelliano la figura di Giuseppe Bandi attraverso il falso di una narrazione autobiografica entro la quale il travestimento è protetto dall'abile rifacimento della lingua ottocentesca del conterraneo, del resto non senza correre il rischio di un compassato calligrafismo. Aprire il fuoco (Rizzoli, 1969 e 1976) racconta, in una sorta di paradossale contropassato prossimo che prelude all'"autunno caldo", le cinque giornate di Milano di un improbabile 1959, innestando nel contesto storico i personaggi della cronaca contemporanea in un pastiche non del tutto riuscito ma talvolta ilare. Rappresenta infine una prova estemporanea il Viaggio in Barberia (L'editrice dell'automobile, 1969), ricerca di una matria primigenia più che taccuino di viaggio. Il sommario profilo abbozzato non deve nascondere da ultimo che i conti con Luciano Bianciardi restano comunque aperti. Le linee di forza che distinguono la sua ricerca (l'aguzza satira politica, lo smontaggio graffiante del meccanismo sociale dell'integrazione, il ribellismo impotente che alimenta tuttavia una "disorganicità" persistente dell'intellettuale) non appaiono soltanto semplici reliquie di un'epoca superata, quella compresa tra "neocapitalismo e contestazione" per dirla con le parole di un convegno di studi dedicato di recente allo scrittore dalla città natale. In effetti le sue ragioni, con pochi mutamenti e qualche sollecitazione, non sono certo prive di autentica risonanza nei tempi postindustriali e mediacentrici della nostra quotidianità. drate legioni, Roma doma, pax romana, e, naturalmente, i colli fatali. [...] I componimenti scritti erano poi la vera fiera dell'impudenza; non mi pare che fossero altro se non una crescente variazione di aggettivi roboanti sui medesimi temi. Il mio professore ci spingeva deliberatamente per questa china, pericolosa perché conduceva all'anestesia morale, ma non credo che gli altri fossero da meno: in ogni caso giungevano, al massimo, ad astenersi dall'intervenire, a lasciar correre. Non ricordo, fra i professori della vecchia generazione, alcuna effettiva resistenza al fascismo; spesso anzi erano gli stessi miei professori, ogni sabato, ingaglioffiti nella militaresca divisa di orbace, i almeno da principio, di carattere morale; cronologicamente corrispose al mio ingresso nel liceo, ed all'aggressione hitleriana. Del fascismo mi offendeva la goffaggine pretenziosa di tutto l'apparato scenico costantemente tenuto in piedi, anche nei rapporti umani più semplici e comuni; notavo con rammarico la fortuna, per così dire, politica, di certi compagni di scuola, intellettualmente nulli, ma vistosi (non mai abili) in ginnastica: il fascismo incoraggiava in loro il disprezzo per la cultura e per lo studio (disprezzo assai diffuso fra gli studenti), e li invitava al facile pavo-neggiamento della parata. Neppure può dirsi che cercasse di formare in loro una solida preparazione di tecni- di moda, il diario di Ciano, per esempio, il ministro degli esteri fatuo e parvenu che, in partenza per la Germania, si preoccupa personalmente (e considera questo un atto di sagacia politica) di controllare le divise del personale del seguito, ed aspira ad apparire, agli occhi dei tedeschi, "più prussiano di loro". Dicevo queste cose a mio padre, e lui, sempre deciso a far di me un ufficiale di carriera, badava a farmi convinto che questa era incapacità del fascismo, di gente nuova ed estranea alla tradizione del nostro esercito. [...] A questa prima generica ribellione, che ho definito morale, ma che sarebbe più esatto chiamare psicologica, si aggiunse la scoperta della cul- tura, che al liceo mi fu facilitata da due insegnanti veramente valorosi, giovani ed antifascisti: Vittorio Bar-toletti, che mi insegnò a leggere Virgilio (ed ora so come la democrazia si può imparare anche in quel modo), ed un altro, che insegnava storia e filosofia, Diogene Dizzitti, un entusiasta gentiliano, forse un po' ingenuo e con qualche uscita miracolistica, ma che mi fece intendere la possibilità di costruire ideologicamente il mio antifascismo. La filosofia, in generale, mi pareva una cosa meravigliosa, capace di aprire a tutti le porte della verità, e di far scomparire dal mondo l'errore e il male. Fu allora, anche per l'insegnamento del mio buon Dizzitti, che decisi di studiare filosofia. Gli anni del liceo furono più belli e più ricchi, anche se agitatissimi: fra gli insegnanti giovani almeno quattro io ne ricordo antifascisti, molto cauti ed incerti, questo è vero, ma sinceri. Ancora oggi essi sono antifascisti e democratici. Un mio giovane insegnante di greco, ex normalista, ma cattolico, e credo anche uscito da studi seminaristici, era allora antifascista, lo è ancora, ed è ancora cattolico, senza peraltro esser democristiano. Allora era più facile trovarsi vicini, e riconoscersi in quel settore dell'antifascismo, riconoscersi più per le somiglianze che per le differenze: ed era anche bello intendersi fra cattolici e laici, condannando insieme il fascismo del vescovo e quello del prefetto. Va detto subito, d'altra parte, che questo settore di antifascismo entro il quale era facile lo scambio e la circolazione, risultava invece chiuso, rispetto ai settori adiacenti. La mia reazione al fascismo, in questo senso condivisa da tre o quattro miei compagni di classe, era di tono genericamente liberale; la nostra avversione andava agli aspetti di tirannide e di intolleranza del fascismo, alla soppressione delle libertà democratiche, ma più esattamente forse alla compressione della libertà in senso assoluto. Se rileggo certe mie note ingenue di allora, mi accorgo proprio di questo senso individualistico, esclusivo, e perciò astratto, della mia libertà a diciotto anni. Ed a rigore non poteva essere altrimenti: non potevo prescindere da quell'esperienza, come non potevo prescindere dall'esperienza crociana. Per la verità, nessuno mi consigliò o mi mise in mano i testi laterziani, li trovai da me seguendo indicazioni bibliografiche sui testi scolastici, e li scoprii, ebbi anzi piena ed entusiasmante la sensazione della "scoperta". Ma ora so che quell'incontro con Croce era determinato, immancabile; e non è un dato di fatto importante che si potessero leggere e comprare, anche allora, le opere del Croce, mentre Gramsci moriva ignoto in carcere? Il fatto è che io credevo di aver scoperto la cultura tout-court, mentre ne avevo colto solo una faccia. Per questo i miei contatti con altri settori dell'antifascismo furono negativi. Conobbi Lio Lenzi, comunista, un nobile artigiano livornese, che allora campava in una sua botteguccia di vetraio (fu poi il primo sindaco democratico della mia città, con grave ira dei "galantuomini", che han fatto l'impossibile per rovinarlo e ci son riusciti: oggi non ha più nemmeno la botteguccia di vetraio). Mi fece un rapido quadro del suo antifascismo, così diverso dal mio che non riuscii ad intenderlo affatto. Io non capivo perché fascismo dovesse significare, prima di tutto, guerra, fame, disoccupazione, sfruttamento dell'operaio e del contadino. Posso anzi dire che non conoscevo il significato esatto di quelle parole, quasi appartenessero ad un gergo tecnico per me in-