N > l'INDICE -8 ■■dei libri del meseHI _Narratori italiani_ Contrabbandiere di parole nei cieli di Cézanne di Nico Orengo Francesco Biamonti, Vento largo, Einaudi, Torino 1991, pp. 107, Lit 22.000. "Andiamo, andando". Con il passo lento e cadenzato sulle asprezze del terreno scosceso dei pascoli di Provenza, Francesco Biamonti ci ha dato, otto anni dopo il suo primo romanzo L'angelo di Avrigue, una nuova narrazione. Quell'"Andiamo, andando", che pronuncia uno dei personaggi del ligure Biamonti, esprime la misura della sua scrittura. Una scrittura che si fa meditando sulla scrittura e bruciando nell'atto di stenderla. Francesco Biamonti è scrittore molto colto, uomo che ha letto tutti i libri, che ha accettato la leggenda di essere, laggiù, nell'ultima Liguria, fra Bordighera e la frontiera, un "coltivatore di mimose" per pubblicare il suo primo libro e incuriosire, con la carta dell'insolito mestiere, i primi lettori dell'industria editoriale. Ricordo che per "attirare l'attenzione" di Giulio Einaudi sul dattiloscritto de L'angelo di Avrigue gli dissi che per quella sua mimosa che soffriva contro il muro del castello di Perno avevo un coltivatore ligure di mimose che, tra l'altro, aveva scritto un bel romanzo. E Biamonti, allora, con prosa alta e nitida, parlando di "chelato di ferro" e spiegando che "il chelato era fotofobo", stese una relazione sulla malattia della mimosa di Einaudi. Il che permise poi l'invio del manoscritto e una lettura della Ginzburg, sfavorevole, e una di Calvino, favorevole. In realtà Biamonti è un flaneur della notte, un ex bibliotecario della ven-timigliese Aprosiana, un lettore di filosofia e poesia, divoratore di cultura francese e spagnola. E un attento conoscitore di pittura. E la pittura a nutrire, di continuo, la sua visione, da Morlotti a Cézanne a de Staél. Se con L'angelo di Avrigue Biamonti aveva raccontato i frammenti di un giallo, con un ragazzo morto per droga, un marinaio colpito dal male dell'orizzonte, in Vento largo lo scrittore affronta il tema del gelo e dell'abbandono. Vari ha le terre bruciate dal freddo: non vale più la pena di riprendere a coltivarle. Si lascia attrarre dalla proposta di Sabel, a cui è morto il padre, vecchio passeur di clandestini, di tener fede agli ultimi impegni: indicare e portare, attraverso gli impervi passi, gruppi di disperati verso l'ago- gnata Francia. Vari, affascinato da Sabel, accetta. E inizia quel pericoloso, solitario lavoro, muovendosi nella notte e fra le rovine di un paesaggio dove tutto sta morendo, paesi e natura. Una morte che tocca anche gli uomini, persi nella vecchiaia, nell'instabilità affettiva, nello spaesa-mento individuale che li fa muovere verso lontani orizzonti o bruciare negli inferni della droga. Vari cammina, affronta i passaggi. Lo tiene in viaggio il sorriso dolente di Sabel. E, quando lei scomparirà, sottraendosi al suo sguardo, la cercherà sui grandi altipiani di lavanda che incendiano i cieli di Provenza, sul mare. Ma senza troppa convin- zione, sicuro che la libertà di restare o andare, esserci o non esserci, è, troppo privata e grande per cercare di mutarla. Biamonti racconta, attraverso una lingua lirica sempre alta, al massimo dei giri, che rischia e la maniera ("Povero cane da pastore, ridotto a cane da passeur da quattro soldi, tu pensi che la rivedremo, con quei suoi occhi chiari d'oltremare, di cielo toccato dal bianco eterno delle nevi?") una Liguria tramontata, perduta. Una Liguria riscoperta, molto dopo gli inglesi, da tedeschi e olandesi, in cerca di rifugio e nicchie nelle quali sopravvivere, alla meglio, tirando su ristoranti, allestendo barche per turisti, spargendo droga. È la Liguria estrema dei passeurs, dei valichi clandestini, sconfitti ormai, dalla grande Autostrada dei Fiori, sulla quale si svolge il commercio dei passaggi e degli intrighi. E, la Liguria di Biamonti, quella degli anni cinquanta e sessanta, una Liguria di roccia umida, muschiosa, dove i paesi si trasformavano in cascate d'acqua, in morgane di sabbia. E Biamonti la racconta nei suoi colori di luci e ombre, ma, si direbbe, guardandola non già dov'è, ma dove è già stata riportata: nei cieli di Cézanne, nella roccia di Morlotti, fra le ali dei gabbiani ("Intonacati d'aria") di de Staél. Un paesaggio materico, un paesaggio di pittura. Ed è in quei pittori che Biamonti riconosce Liguria e terra di Provenza e ritrasforma in emozioni e ferite dolenti. Non bisogna dunque cercare in Vento largo una storia forte, una struttura robusta. Si direbbe che a Biamonti non interessi, i suoi sono personaggi di vento, vanno e spariscono, si muovono e s'afflosciano, vengono avanti e deviano improvvisi. Non sempre, come il vento, c'è un perché a sorreggerli. Così, è leggera la trama che lascia intravedere strappi e necessità di qualche punto di sutura, soprattutto verso la fine, dalla fuga di Sabel al suo misterioso eremo. Ma a Biamonti interessa la lingua e non la storia, scoprire i nervi della parola e ascoltarli battere. Pietre "conchillifere", "glomeruli", il "chelato era fotofobo", scienza della parola e parola della scienza, trovano in Biamonti un abilissimo, sincero, artigiano, al limite del virtuosismo, colmo d'echi e schegge sbarbariana. Biamonti scarnifica il linguaggio, lavora in levare, vorrebbe comportarsi come la luce che descrive: "divorava i suoi stessi riflessi e lasciava le cose nette..." Se questo è l'obiettivo, gli auguriamo di arrivarci, magari con un po' più di pazienza, con meno ansia di "chiudere" il libro: un romanzo è un po' come una casa, ha corridoi, sottoscala, cantine; luoghi che non sempre si vedono, ma sono passaggi e fondamenta e fanno la costruzione. Un viaggiatore populista di Alberto Papuzzi Goffredo Fofi, Storie di treno, con tre tavole di Maurizio Donzelli, L'Obliquo, Brescia 1990, pp. 33, Lit 15.000. L'Italia che Fofi attraversava in treno — da Roma a Palermo negli anni cinquanta, dal sud al nord negli anni sessanta, più tardi, ai tempi dei "Piacentini", da pendolare sessantottino tra Roma e Trento e tra Milano e Torino — quell'Italia appare in queste pagine di ricordi (già pubblicate nel 1988-89 sul mensile "Tic" di Giancarlo Ascari e Franco Serra) come un mondo lontano e irraggiungibile, di cui restano tracce sparse, un nome, un volto, una storia, una data, non più ricomponibili in una visione unitaria, tanto sono cambiati i tempi e tale è stato il rivolgimento culturale. Su quei treni viaggiava un'Italia socialmente disomogenea, incrociando e mescolando dialetti e usanze, tradizioni e ideologie (o, spesso, mitologie), con una varietà di comportamenti — soprattutto per il contrasto tra città e campagna e tra nord e sud — che esponeva il paese ufficiale e la cultura padronale alle ribellioni di chi viveva in condizioni subalterne ed era forzato a rendersene conto. "Sempre, sui treni del Sud, al cadere degli anni Cinquanta, c'era un organetto che suonava Marina..." Dai finestrini si scorgevano le lunghe processioni che da secoli partivano ogni mattina dai paesi bracciantili per tornarvi alla sera. Poi arrivarono i treni stipati della grande migrazione: "capifamiglia o giovani che si raggruppavano spontaneamente per zone di provenienza... che s'ammucchiavano in mezzo a scatole di cartone d'ogni dimensione..." Sferragliano i treni e portano Fofi in quella Torino che ai suoi occhi "era la Storia della Classe Operaia, mitica e austera speranza di socialismo": le soffitte torinesi, i vo- lantini alla Fiat, i compagni, la solidarietà. Fino al Sessantotto. ' 'Posso dire di aver fatto ' il' 68 in treno?" La funzione di Fofi nel movimento, "la mia piccola funzione", è legata alle riviste "Ombre rosse" e "Quaderni piacentini": toccò a lui, "più nevrotico e meno sedentario di Giorgio Bellocchio e Grazia Cherchi", il compito di correre, in treno naturalmente, da un'occupazione all'altra. Quell'Italia, quella gente, quella molteplicità di esperienze, le crisi, i cambiamenti e i riaggiustamenti, non sono fotografati o qualcosa del genere; sono raccontati, come in una conversazione tra vecchi amici, con molta semplicità, un po ' d'ironia, un po' di malinconia. E un brulichìo di microstorie, che sembrano sfiorare la Storia; come se vedessimo sfilare un lungo vecchio treno e incollati ai finestrini i braccianti, gli immigrati, gli scugnizzi, i sottoproletari, il commesso viaggiatore che conosceva la "vera storia" di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, il gangster italoameri-cano rispedito dagli Stati Uniti a Palermo, Ta-neddu apprendista in una boita che interviene al congresso della Fgci (ma finirà per tornare a Palermo dove aprirà una boutique di abbigliamento per giovani), e gli operai sfruttati, e gli intellettuali accigliati, e Carlo Levi, e Giovanni Pirelli, e Italo Calvino, e gli estremisti maoisti, i marxisti leninisti, i tattici trockisti... Ricordi scompaginati, forse per questo così poetici; sono lo specchio appannato di un percorso del tutto personale, che si chiude su un capitolo dalle tinte oscure, quello delle divisioni all'interno della sinistra, i primi passi del terrorismo, l'omicidio di Alceste Campanile. Svaniti i tempi in cui Fofi e Taneddu andavano ad assistere alla partenza dei treni per il sud. All'orizzonte incombe la paura di lutti, "che peraltro non tardarono a venire". Voglio difendere la psicoanalisi dai medici e dai preti, vorrei consegnarla a una razza che ancora non esiste, una razza di curatori d'anime laici, che non abbiano bisogno di essere medici e si autorizzino a non essere preti. Freud al Pastore Pfister, 1928 SIC IL LAVORO PSICOANALITICO 4 LA QUESTIONE LAICA RAGIONE LEGISLATRICE FREUDIANA E ORDINI CIVILI a cura di Ambrogio Ballabio Maria Delia Contri Giacomo B. Contri EDIZIONI SIPIEL MILANO Il senso giuridico de\\'Analisi laica di Freud. L'inconscio come legge del singolo nell'universo. Psicoanalisi, Stato, psicoterapie. Insieme con il volume, un documento programmatico della Scuola di questo pensiero, l'Istituto "Il Lavoro Psicoanalitico". Lavoro Psicoanalitico 3 Lexikon psicoanalitico e enciclopedia Edizioni Sipiel, Milano 1987. 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