L'INDICE LIBRI DEL UESE|| MARZO 1992 - N. 3, PAG. 10 Ottiero Ottieri, L'infermiera di Pisa, Garzanti, Milano 1991, pp. 86, Lit 20.000. L'infermiera di Pisa è il nuovo poemetto in versi di Ottieri, in cui l'autore prosegue la sua dura ricerca della guarigione psichica: le tappe, come testimonia gran parte dell'ultima sua produzione, sono quelle forzate delle cliniche, dove il paziente è ridotto a volontario prigioniero in cambio della speranza di libertà dal dolore mentale. È questo un primo, grande paradosso, una trappola alla quale Ottieri, attraverso le molteplici voci dei suoi personaggi autobiografici, si affida e contemporaneamente si ribella, riaffermando di contro alla parzialità delle scuole terapiche la totalità dell'individuo, la sua integrità sia pure malata, la sua assolutezza. Infatti, la depressione non è solo tema dei suoi libri, ma l'oggetto, di cui l'io sofferente, come altro da sé, spia e coglie i meccanismi strutturali più profondi e paradossali. E qui stanno i contributi maggiori della scrittura di Ottieri sul piano della conoscenza clinica. Si rilegga, per esempio, Il campo di concentrazione (1972), resoconto di un ricovero per depressione, ma soprattutto registrazione in atto dei procedimenti del pensiero depressivo che, nella sua onnipotenza, scardina il sistema logico del pensiero non malato, rendendolo — vittoriosamente! — incongruo o quanto meno parziale. Basti una citazione: "L'analista ha consigliato, quando ero spaccato in due dall'incertezza, di seguire il mio sentimento. Ma il mio sentimento non c'è... Mi odio. Bisogna volersi bene e curarsi, dice l'analista. Quindi trascorro ore a pensare se avrei fatto bene a andare in montagna o no", dove il consequenziale "quindi" non fa Poesia, poeti, poesie Vecchio matto che congiungere, sottomettendola e depotenziandola, la logica "sana" all'altra, malata eppure altrettanto stringente. In questo senso Ottieri è davvero scrittore non sulla, ma "della clinica", come fu, ai tempi della collaborazione con Olivetti, "scrittore della fabbrica": si veda Donna-rumma all'assalto (1959). di Giuliana Petrucci Quello che l'autore mette in scacco, in ultima analisi, è il dogmatismo delle scuole, delle terapie, dei metodi, in una sorta di dialogismo "in assenza", di volta in volta arricchito per dati esperienziali, con gli addetti ai lavori: ultimo, ne L'infermiera di Pisa, il confronto-scontro nell'approccio al disagio mentale, tra la psi- cologia analitica, alias Freud e nipotini e la nuova psicologia biologica, l'"alchimia americana", come l'autore la definisce, praticata nella clinica di San Rossore: "Tra Giancarlo il freudiano e Giovanni / sta il vecchio nell'antico / dilemma rinnovellato. / Il barone della parola e il barone / della molecola, con le loro schiere, / Su una bici candida di Francesco Rognoni Tomaso Kemeny, Il libro dell'angelo, Guanda, Parma 1991, pp. 92, Lit 16.000. "Nel campo nero non vi è parola: / angelo mio scomparso / sei più svelta dime / a conservare la forma / senza luogo ' '. Si suggella, con questo ritorno del nu-minoso "ovunque I nelle vene dell'aria", l'avventura di una notte (estenuan te come quella di Giacobbe, ma così più invidiabile!), inaugurata da un "improvviso colpo d'ali molteplici", straziata ed allietata dalle epifanie d'un angelo (mai nominato) che variamente si manifesta come falco, farfalla, aquila reale, amante divina, "donna bellissima [che) viene a convivere / nell'esilio sovrumano", ' 'bambina che prende / le stelle al laccio", "regina dei ghiacciai", "profilo di ragazza usurpante] ! l'alone della figura invisibile". Quarta e più matura raccolta di poesie di Tomaso Kemeny (nato a Budapest nel '39, ma in Italia fin da piccolo) Il libro dell'angelo si divide in tre sezioni — La linea della vita, Corpo alato, Nel carcere di luce —, le prime composte da undici sequenze di brevi, fulgide schegge (così saldamente incorniciate da un Preludio e un Abbozzo di autoritratto da offrirsi alla lettura come un unico poemetto), l'ultima Li dieci liriche più distese, dove le èstasi del sacro amplesso sono consumate ' 'nella casa del terrore ' ', e l'ordine contemplato negli specchi divini del corpo amato e della parola è lambito dalle fiamme di una universale conflagrazione. L'interrogativo sublime su cui il libro si chiude — '"L'attesa forma del mondo / può si scontravano nel cervello, nel corpo / del vecchio, come le contrade sul Ponte di Mezzo". Ho detto mette in scacco, ma in maniera ambivalente: si opera infatti, sul piano della scrittura, una sorta di sdoppiamento tra il bisogno dell'io-paziente di attaccarsi a una certezza, sia pure definitoria, del proprio status patologico, fornita dalla scuola di turno e la rivincita dell'io-narrante che fa vendetta della babele dei linguaggi tecnici, siano psicoanalitici, psicodinamici, cogni-tivisti, behavioristi o psicobiologici, riducendoli alle corde strette delle parole ultime o "primarie": desiderio, bisogno, amore, morte, dolore ecc. Snodi difficilmente eludibili. Da questo punto di vista, ne L'infermiera di Pisa, la scelta del "vecchio matto", raccontato in terza persona ma che spesso protesta il suo "io", è estremamente efficace. Sembra qui di essere arrivati a un punto di non ritorno; infatti non è solo scontro con la malattia, ma anche con la vecchiaia e la morte. Ancora di più, dunque, la bella favola dell'innamoramento per la giovane infermiera "libellula", "alto stelo", evocata più che descritta, con toni leggeri, quasi incorporei ("albero fronzuto solo di ricci neri, / d'occhi, di naso, di bocca"), nonostante le impennate erotiche del pensiero e della carne, diventa centro vitale di questo poemetto. Amore come terapia al dolore, ma, soprattutto, bivalentemente, come contro-terapia alla terapia prescritta dalla clinica, alimento della sofferenza, ostinato attaccamento all'impossibile, all'utopia: "indefessa ricerca / della felicità prima dell'urna / bambi-none alla cerca / dell'umore lineare, / utopia del bipolare". L'onnipotenza del "pensiero per- L'ARTE RENDE LIBRI.