■■Idei libri del meseÌBH GENNAIO 1992 - N. 1, PAG. 7 Narratori italiani La luce fuori Napoli Anna Maria Ortese, La lente scura. Scritti di viaggio, a cura di Luca Clerici, Marcos y Marcos, Milano 1991, pp. 512, Lit 30.000. Difficile stabilire un confine, nell'opera di Anna Maria Ortese, tra racconto, o articolo destinato ad un giornale, e prosa di più ampio respiro, destinata a vivere di vita propria. Tutt'e due nascono dalle stesse esigenze espressive, partecipano della stessa urgenza di cogliere e fissare, sia pure per un attimo, "il meraviglioso fenomeno del vivere e del sentire". In molti suoi libri, ragioni rappresentative e motivazioni espressive — se non espressionistiche — s'intrecciano fortemente; le sue vicende personali, o meglio, la loro particolarissima rielaborazione compiuta nel segreto di una dolente sensibilità impregnano ogni suo scritto. E se già parzialmente conoscevamo le sue "trasfigurate" descrizioni di viaggio, una particolare gioia ci dà, ora, l'edizione completa di tutti gli scritti di viaggio, che viene ad integrare il complesso della sua produzione narrativa. Si deve alla cura di Luca Clerici — autore, oltre che dell'esauriente postfazione, anche di un articolato ritratto critico pubblicato su "Belfagor" (luglio 1991) — questa raccolta di scritti usciti tra gli anni cinquanta e sessanta in quotidiani e periodici come "Milano-sera", "l'Unità", "Il Mondo", "L'Europeo, "Noi donne". Il libro è costituito da due parti: la prima raduna una scelta di pezzi giornalistici proposta negli anni settanta a Mondadori e successivamente smembrata e affidata, dopo il rifiuto della casa editrice, a due diversi editori: Pellicano libri (Il treno russo, 1983) e Theoria (Il mormorio di Parigi, 1986); parte dei rimanenti articoli viene pubblicata di nuovo da Pellicano libri (Estivi terrori, 1987). La seconda parte comprende articoli mai prima d'ora riuniti in volume, e dunque scarsamente conosciuti. Perché questo titolo, La lente scura? e soprattutto, qual è il bagaglio con cui si metteva in viaggio, negli anni cinquanta, questa donna precocemente affaticata, l'autrice dei folgoranti racconti di Angelici dolori, delle terribili prose de limare nor. bagna Napoli? Forse bisognerebbe partire dai suoi primi territori esplorati, per ricavare le coordinate del suo metodo d'affrontare i luoghi, e le fonti primarie da cui continuerà ad attingere, nel corso della sua stagione espressiva, una ricca fioritura di simboli e di metafore, le inconfondibili sigle del suo mondo interiore. Quindi, iniziamo da Napoli. Da adolescente, Anna Maria amava girare a piedi tutta la città: scorribande di una ragazzina chiusa nelle sue fantasie, che pure tutto vedeva, tutto registrava con la sua sensibilità. Prova ne sia la conoscenza capillare di Napoli riversata in molte sue opere. E della città saprà raffigurare i vicoli senza speranza di luce, le povere case di porto con l'unica consolazione dei gerani, la chiesa in cui è reclusa la giovane Madonna nera — simbolo di tutte le creature offese a lei care —, i bassi lebbrosi, gli orribili Granili, così come i profumati giardini e le splendide dimore dei quartieri alti, la "Toledo di luce". Àncora Napoli compare in qualcuno di questi scritti, con la sua folla, che più volte ricorre — immagine ossessiva — nelle opere ortesiane: "tappeto di carne", "serpe folgorata dal sole", e ancora "muro fiorito", "colata lavica", "diluvio di esseri". È l'immagine simbolo di una vitalità in apparenza esuberante, ma prossima al disfacimento. Se Napoli è la città dell'adolescenza, delle fantasticherie intorno a nuvole, acque, lumi di porto, della scoperta del dolore e dei deboli, Milano è la città della maturità, dell'approfondimento delle esperienze. Della città Anna Maria Ortese descrive gli ingranaggi della produzione, la smania di benessere, la muta emarginazione dei poveri in quegli articoli poi raccolti in Silenzio a Milano (1958). Un'immagine particolare è adoperata per connotare la condizione di estraniamento vissuta dalle persone più povere e smarrite: queste persone si sentono "di pietra" e, come dice Masa, protagonista del racconto Lo sgombero — uno dei più belli della letteratura del Novecento —, "pietra dura e muta, selciato nella vita". Quest'immagine è destinata a ricorrere spesso, ed è il motivo ispiratore del lungo reportage Viaggio in Liguria. Attraversando la Liguria la Ortese è dolorosamente turbata dalla grande bellezza dei luoghi e dal loro avvilimento estivo: "un- trofeo di tutti i luoghi comuni dell'estate". Il mare, l'elemento forse più importante nella costellazione simbolica dell'autrice: ribellione, desiderio sempre rinnovato di fuga, smania di libertà, è ora degradato a occasione di spettacolo, "di passerella". Si ferma di Maria Vittoria Vittori a Santa Margherita Ligure, stupenda località già corrosa dall'assidua compravendita di case, di beni e di valori, dalla banalità imperante. E lì conosce il capitano Alessi, che ha trascorso lunghi anni sul mare, e lo ha visto snaturarsi: "Il mare era impietrito, era morto. E anchejioi, la nostra nave, e tutte le altre navi, erava- mo pietra, monumenti come nella piazza del paese". E torna l'immagine della pietra, a siglare, con la sua irrimediabile asprezza, un destino di totale isolamento all'interno di quella giostra allegra e feroce che s'avvia a diventare l'Italia. Il capitano Alessi è come Masa e gli abitanti dei bassi: della razza dei perdenti, assegnati a quello che la Ortese chiama "il confino di classe". Un'attenzione particolare è riservata a queste creature, che forse non hanno a loro disposizione mezzi espressivi molto efficaci ma, in compenso, hanno sguardi che sanno dire. Non a caso, la viaggiatrice Ortese si preoccupa soprattutto di incontrare lo sguardo delle persone: le donne di Montelepre, il paese del bandito Giuliano, hanno occhi "foschi e lucenti", pieni di dolore "da cui il pianto esula"; la bambina pugliese, una sorta di poverissimo folletto, ha "occhi nerissimi e lucidi di volatile, in cui appariva il vigore e il tremito di un coltello". E fiorito di sguardi è l'intero racconto del viaggio in Rus- sia: l'autrice stessa lo dichiara nella nota introduttiva: "... ma soprattutto Occhi - Occhi - Occhi, e Voci dolci, umane, chiarissime, ma come provenienti da un pianeta oscuro...". Testimoni del popolo russo diventano quindi gli occhi del giovane militare che "scintillano con una luce di fiume", "gli occhi luminosi, pieni di una beata incertezza" delle ragazze che ballano al Cremlino. Dallo sguardo straordinariamente fresco, limpido, l'autrice ricava l'impressione di un paese che, pur tra enormi problemi e contraddizioni, mantiene il desiderio di colloquio come "esigenza di vita". "Il profondo mare dell'animo russo da lontano è nemico. Da vicino è fresco, colmo di suoni". Fu aspramente criticato, questo reportage, da destra e da sinistra, accusato di essere troppo blando o troppo critico; rileggendolo oggi si può forse scoprire la sua autentica natura, che non è cronachistica o informativa, ma essenzialmente lirica. All'interno di questo vastissimo paese, arretrato per molti aspetti, forse ostile e poco decifrabile, così come in un'Italia falsamente allegra e assordata dall'incipiente benessere, continuano pure a vivere le semplici creature care all'Ortese, con i loro sguardi teneri e vivi, la loro intelligenza mortificata eppure capace di cogliere, in qualche modo oscuro e frammentario, il mistero della vita. Questo cerca l'autrice nei suoi viaggi: quest'attenzione vigile, tenace verso i deboli, "f bambini della creazione", è ciò che conferisce una forte unitarietà alle sue pagine. E, a integrazione di quanto l'autrice stessa afferma — la visione della realtà tramite una lente scura —, bisognerà aggiungere che in molti dei suoi scritti è usato anche un filtro ben diverso. Accanto a una sensibilità pronta a cogliere ovunque gli indizi di sofferenza delle piccole creature, esiste una fiduciosa disponibilità nei confronti del "meraviglioso fenomeno del vivere e del sentire". E anche in questo suo atteggiarsi nei confronti delle cose e delle persone in termini di stupita meraviglia — l'imprevista gioia di un mattino parigino pieno di colori, di un rassicurante "domestico" cielo inglese, dello sguardo luminoso e gentile di un militare russo — che è riposta l'essenza del suo stile di viaggiatrice. Non c'è solo la lente scura a schermare le immagini; piuttosto, molte volte, è il raggio di meraviglia — lo specialissimo "raggio verde" di Anna Maria Ortese —, a riverberare del suo colore inconfondibile le cose e le persone. Non a caso, la sigla stilistica propria dell'autrice è l'ossimoro "Dolente felicità", "strazio soave", "cupo incanto", "doloroso splendore". Se la vita può essere "orrore", è, comunque, per Anna Maria Ortese, un "orrore esaltante". Frammenti di un polittico di Antonella Gargano Giuliana Morandini, Sogno a Herrenberg, Bompiani, Milano 1991, pp. 195, Lit 27.000. Il romanzo di Giuliana Morandini è centrato su un personaggio storico, il pittore Jórg Ratgeb, autore del polittico di Herrenberg, mandato a morte a Pforzheim nel 1526 dalla "furia omicida infiammata dalla voce di Lutero" per essersi schierato con i contadini contro i principi. I ventidue capitoli che lo compongono si aprono e si chiudono su una Venezia fatta di arie ristagnanti, miasmi pestiferi e già mortali ma anche dell'insolente accendersi di sete e velluti, e si distendono poi nelle terre di Svevia tra Herrenberg e i campi di Stoccarda attorno al tragico anno 1525, in cui in Germania le rivolte contadine verranno definitivamente soffocate dai principi. Un'appendice ripercorre la storia del polittico, le sue demolizioni nel corso di quegli anni arroventati, la sua scomparsa dietro un panno verde che lo sottrae "alla vista dei fedeli": pur presentandosi con la secchezza filologica di un fuori testo ', è in realtà anch'essa parte integrante del romanzo, come le 45 schede su artisti e personaggi che lo concludono. Certo, Ratgeb è messo straordinariamente a fuoco dalla scrittura della Morandini, ma si direbbe, quasi malgrado Ratgeb, che il protagonista sia un personaggio multiplo e multiforme, che comprende la grande pittura di Mathias Grùne-ivald, la scultura lignea di Tilman Riemensch-neider, gli echi delle dispute teologiche di Lutero e Carlostadio o delle idee rivoluzionarie di Mùntzer. Vengono i mente i sei ciechi, colti da Gert Hofmann nel suo Der Blindensturz (1985) prima di entrare nel dipinto di Pieter Brueghel, e forse la comune materia pittorica giustifica ulteriormente tale richiamo. Ma nella parabola dei ciechi di Hofmann l'io narrante è, letteralmente, un io collettivo, mentre nella Morandini le voci affannate ma insieme sommesse seguono molti fili, diversi e contrastanti tra loro. E allora il richiamo a Hofmann è, semmai, in questo entrare e uscire dalla pittura, in questa soglia difficile, a volte drammatica, tra arte e vita. La vera protagonista del romanzo è, allora, proprio la scrittura iconica della Morandini, una cifra che da sempre è di questa scrittrice, ma che qui si fa dominante. Non è un caso che il centro drammatico della vicenda, la grande battaglia attorno alla rocca di Herrenberg, sia giocato proprio sull'assenza, stia tutto tra il 'prima ' e il 'dopo', tra i contadini che "si dispongono a semiluna" e il suono dell'Angelus che annuncia la sconfitta. Ciò che resta sulla pagina non è un'azione, l'infuriare di una battaglia, ma l'immagine statica e prepotentemente pittorica di quella semiluna. Le figure di donne sembrano perdersi, come ai margini della grande storia, ma poi basta per tutte Orsola, sposa di Ratgeb, di una sensualità contadinesca e trepida assieme, rispetto alla quale il nesso indissolubile arte-vita toma evi-dentetissimo nel cerchio dei pensieri di Jòrg, che dal limpido sonno di sant'Orsola nelle stanze del Carpaccio vanno al risveglio della sua Orsola nella casa di Herrenberg, più carnoso e carico di desideri. O ancora la bambina, custode silenziosa e attonita del polittico, di cui ritorneranno le tracce più avanti, assieme al giudice incaricato di riesaminare l'oscura vicenda del processo a Ratgeb. Dunque, un romanzo assolutamente nuovo per la Morandini, ma che pure tocca i suoi tasti, in una struttura di grande respiro e tenuta narrativa. Non un romanzo storico, ma un romanzo sulla storia, non un romanzo sulla pittura, ma un romanzo davvero "scritto con gli occhi". Plunkitt di Tammany Hall Una serie di conversazioni molto semplici su questioni politiche molto pratiche, pronunciate dall'ex-Senatore George Washington Plunkitt. il filosofo di Tammany Hall, dalla sua tribuna — il chiosco del lustrascarpe del Tribunale di Contea di New York Raccolte da William L. Riordon, a cura di Arnaldo Testi Collana Piccola Miscellanea, pp. 172, L. 13.000 è un libriccino aureo (e spudorato); un piccolo classico della letteratura e della cultura politica americana. (Beniamino Placido, La Repubblica) da un libretto... che andrebbe elevato a classico del pensiero politico... quante dritte per la discussione appena iniziata in Italia sulla perdita di consenso e di legittimazione dei nostri partiti. (Alberto Statera, La Repubblica) w ETS Editrice Distribuzione PDE