[INDICE ■■dei libri del mese■■ La definizione di curiosità che è più vicina a noi oggi viene dal termine francese curiosità e dal suo uso consolidato nell'Ottocento. Curioso è chi si interessa di tutto, chi non sceglie a priori, ma si lascia attrarre da argomenti sempre diversi, dal conoscere, possedere e collezionare cose rare e preziose e sempre nuove. Di questa categoria in passato si è fatto un uso molto rilevante. L'impulso verso il nuovo nasce dalla curiosità e tutte le grandi scoperte, compresa quella del Nuovo Mondo, ne sono state una conseguenza. Per almeno tre secoli, dal Cinquecento al Settecento, la curiosità è stata uno degli elementi portanti della conoscenza scientifica. Gli scienziati definivano se stessi come "curiosi homines" e la loro ricerca, nel momento in cui compilavano il catalogo del mondo animale, vegetale e minerale, era profondamente caratterizzata dall'interesse per il mostruoso e per tutto ciò che sfuggiva alle regole, prima ancora che fossero stabiliti dei sistemi all'interno dei quali l'eccezionalità o la rarità potessero trovare posto come un episodio isolato della creazione. Per una singolare coincidenza di percorsi attraverso il bizzarro e il fantastico il Novecento ha riscoperto, attraverso le avanguardie letterarie e figurative, buona parte del patrimonio della curiosità e ne sonda oggi singole zone sempre più spesso, come se una nuova storiografia e un nuovo collezionismo si fossero incaricati di un'operazione analoga a quella dei "curiosi" cinquecenteschi, in realtà in una situazione completamente cambiata, in cui l'omologazione generale dell'arte di tutti i tempi e di tutti i paesi rende tanto più preziosa ogni indagine che risalga alle radici del raro e del curioso, perciò alle motivazioni qualitative che portano verso l'oggetto e al rapporto che comunque si istituisce con la nuova realtà nella quale viene inserito dall'operazione critica o dal semplice gesto di chi lo osserva. La curiosità ha un lungo iter di definizioni spesso opposte come tutte le categorie della mente e del carattere. E stata oggetto di violente censure da parte di chi la vedeva, dal fronte del pensiero religioso, come un recupero del pensiero magico fuori dalla verità delle Scritture. Conosce una vera e propria rinascita nel Quattrocento e accompagna lo sviluppo della scienza moderna fino al momento in cui il modello di una conoscenza sempre più vasta e totalizzante viene sostituito da un bisogno di verifica e sperimentazione, che si associa alla concezione di un mondo misurabile e dominabile, ma che ha perso i suoi confini di complessità e meraviglia. Uno strumento utile per una prima definizione del concetto di curiosità può essere la raccolta di saggi di Krzysztof Pomian, Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi-Venezia XVI-XVIII secolo, trad. di Girolamo Arnaldi, Denise Modonesi, Mariolina Romano, Davide Tortorella, Il Saggiatore, Milano 1989, pp. 368, Lit 48.000, già uscito in edizione francese da Gallimard nel 1987. Come tutte le raccolte di saggi apparse in occasioni diverse, offre un panorama di problemi all'interno dei quali il lettore deve trovare da solo il suo percorso, per di più con qualche piccola sfasatura editoriale, come la premessa, scritta unicamente per l'edizione francese e non riveduta per il pubblico italiano. Di fatto il volume riunisce l'insieme dei contributi dati da Pomian in questi anni al problema della collezione, nell'accurato dosaggio metodologico che lo caratterizza: la griglia semiologica per l'approccio più teorico nel primo dei testi presentati, già noto in Italia per aver co- stituito, nella Enciclopedia Einaudi, la voce Collezione. Gli altri saggi sono situati nel terreno neutro, tra storia e antropologia, che Pomian rivendica per il collezionismo e lasciano la sensazione, non necessariamente negativa, che "curioso" sia chi studia, prima ancora che l'oggetto della ricerca. Anche se, come ammette lo stesso Pomian, una storia della curiosità è ancora da scrivere, il saggio La cultura della curiosità ne fissa alcuni punti utili, relativamente alla Francia: dalla definizione dei Dizionari di Fure-tière (1690) e dell'Académie (1654), alla critica severa della curiosità che viene dai Caractères di La Bruyère, in cui si esclude che la curiosità sia una elementi simbolci che accompagna le raccolte e ne coordina tra loro gli elementi più disparati. Se da un'indagine di insieme delle collezioni si passa a un caso particolare ci si rende conto di come ogni raccolta oltre a esprimere tendenze costanti che le conferiscono l'assetto globale, sia di fatto prima di tutto il ritratto del collezionista che l'ha ordinata. Nei casi più fortunati, quando la collezione esiste integra in un museo, il museo stesso può scrivere, attraverso l'indagine accurata che gli è consentito fare in presenza dei documenti accanto ai reperti, una delle Swedenborg, accanto a strumenti per la didattica, ideati sui principi di Rousseau, Basedow e Comenius, di grandissimo interesse e rarità, e a strumenti per insegnare l'aritmetica, le scienze naturali, o giocattoli concepiti dallo stesso Oberlin, che annota e commenta l'Emile di Rousseau e l'opera di Pestalozzi. Il catalogo della mostra delinea attraverso i vari saggi il pregevole ritratto di un collezionista esemplare dell'età dell'illuminismo e insieme di un "curioso" nell'assetto totalizzante che Oberlin dà al suo museo nella curia di Walder-sbach. E un personaggio pronto per confluire in qualche romanzo e l'occasione viene sfruttata da Balzac, che ne fa il protagonista del Médecin Cosa leggere Secondo me su collezioni e curiosità forma di conoscenza, mentre il nuovo concetto cartesiano di scienza sgombra il campo dall'effimero e dal raro, ponendo piuttosto come obiettivo della conoscenza le verità "che si possono dedurre dalle cose ordinarie e conosciute da ognuno". Il saggio centrale del volume, Le collezioni venete nell'epoca iella curiosità, descrive il panorama complesso di un insieme di raccolte di antichità, di reperti naturali e di opere d'arte, in un terreno continuo di mutamenti e in assenza di regole tali da rendere il lavoro dello storico una descrizione fenomenologica che, nell'impostazione data da Pomian, trova il suo elemento di raccordo ancora una volta nel concetto di curiosità, ma che avrebbe potuto benissimo essere svolta secondo altri parametri: la crescita di una destinazione pubblica per la collezione, il distacco da un uso terapeutico e medicinale dei reperti naturali e l'inizio del procedimento di classificazione moderno, il carico di pagine più compiute ed esaurienti della sua storia. Così è stato per la raccolta enciclopedica di Jean-Frédé-ric Oberlin ora conservata in parte presso il Musée Alsacien di Strasburgo e in parte al Musée Oberlin di Waldersbach (Jean-Frédéric Oberlin. Le divin ordre du monde, 1740-1826, catalogo della mostra, a cura di Ma-lou Schneider e Marie-Jeanne Geyer, Editions du Rhin, Strasbourg 1991, pp. 255, s.i.p). Pastore luterano in una valle dei Vosgi e illuminista convinto, Oberlin raccoglie una collezione universale in cui ogni reperto del mondo creato deve trovare la sua collocazione. È in contatto con uomini di cultura di tutta Europa, tra i quali Lavater. Riunisce materiali secondo un intento pedagogico e didattico, che fa della collezione una specie di pagina di Encyclopédie realizzata negli oggetti, con molto materiale visivo, schemi o disegni per visualizzare i principi teologici, fantasmagorie apocalittiche e bibliche mutuate da de campagne e di Séraphita, cogliendo l'aspetto umanitario e pedagogico del pastore. Ma qualche tratto di Oberlin o di uomini come lui potrebbe essere confluito in quella crudele satira del collezionismo enciclopedico che sarà più tardi il Bouvard et Pé-cuchet di Flaubert. Che la collezione sia un ritratto e possa essere letta come tale, lo si vede dall'attenzione che viene prestata in questi anni, da più fronti, alle propensioni a raccogliere oggetti o opere d'arte provenienti da personaggi altrimenti noti in altri campi. Due episodi recenti a livelli di interesse molto alto, lo testimoniano: le indagini come quelle intorno alle collezioni di Goethe e Freud. Al primo e alla sua casa di Weimar, è stata dedicata a Zurigo una mostra con catalogo (Goethe als Sammler. Kunst aus dem Haus am Prauenplan in Weimar, a cura di Nicolas Éaerlocher e Martin Bircher, Offizin, Zurich 1990, pp. 176, s.i.p.). Anche in questo caso, come in genere in tutte le ricognizioni fuori dallo stretto ambito della specificità del lavoro poetico o letterario del personaggio in questione, l'indagine sulla collezione porta a un grande allargamento di orizzonte. Goethe vi si mostra come naturalista, filosofo, artista, critico e teorico d'arte, nella splendida dimora di Weimar, in cui vive tra il 1782 e il 183^, con la casa e il giardino (e gli inventari relativi), i disegni di sua mano, le raccolte scientifiche e quelle di oggetti d'arte, un patrimonio di oltre 341 casse di manoscritti, 17.800 pietre, 9.000 stampe, 4.500 gemme, 8.000 libri, dipinti, sculture, 50.000 reperti naturalistici. E quello che un visitatore definirà, con un'espressione che avrebbe potuto accordarsi con uno studiolo rinascimentale, "un Pantheon di immagini e di statue", mentre nello spirito di un perfetto "curioso" Goethe afferma che non c'è oggetto della sua collezione che non gli abbia insegnato qualcosa. Il lavoro sulla raccolta presentato in catalogo privilegia esclusivamente gli oggetti d'arte e fa, come è ormai uso corrente in questi casi, una ricognizione approfondita su alcuni oggetti, piuttosto che sull'assetto globale della collezione. Vengono tuttavia fornite notizie preziose sulla disposizione all'interno della casa, in particolare sull'associazione tra il contenuto delle sale e il colore delle pareti voluto da Goethe stesso secondo la teoria dei colori da lui elaborata. L'autore della raccolta disporrà poi gli oggetti in ordine cronologico, seguendo un ambizioso progetto museografico comune al suo tempo: illustrare duemila anni di storia dell'arte, e per scuole: gli italiani, i tedeschi, gli olandesi, i francesi. È abbastanza singolare notare come la sfera che oggi investe il concetto di curiosità passi anche attraverso i memorabilia di grandi personaggi soprattutto letterari, dei quali si riuniscono iconografie e come, quando non sono stati esplicitamente collezionisti, la loro casa diventi oggetto di studi e di ricerche. Tutto questo si intreccia spesso con una sorta di culto degli antenati tributato dai discendenti attraverso la scrupolosa conservazione di oggetti e ambienti. Anche questa è una forma di collezionismo abbastanza comune, che restituisce frammenti di una totalità altrimenti irraggiungibile. Nel caso di Aurore Sand, nipote di George Sand, c'è uno scrupolo di conservazione che fa sì che nemmeno un minuscolo pezzetto di carta di quanto è appartenuto alla scrittrice nella dimora di Nohant venga gettato. La microstoria di questo ambiente e dei suoi abitanti, restituita in Ala table de George Sand, a cura di Christiane Sand, Flammarion, Paris 1989, pp. 240, s.i.p., si svolge secondo un principio che la scrittrice aveva enunciato nella sua autobiografia: "L'Hi-stoire se sert donc de tout, d'une note de marchand, d'un livre de cuisine, d'une mémoire de blanchis-seuse". I materiali presentati mostrano la vita nel castello, i ritratti, gli oggetti riuniti, le piccole collezioni (è inevitabile che in ogni casa, in quest'epoca, ce ne siano di minuscole e spontanee, di pietre, di farfalle, di erbe essiccate), per finire con i "cahiers" di ricette della casa, che costituiscono un'altra preziosa piccola raccolta di riti e di termini ricercati. L'editoria francese ha una notevole propensione per queste memorie letterarie che passano attraverso la testimonianza degli oggetti. A Mo-net è stato dedicato un volume analogo (A la table de Monet, Chène, Paris 1990) e a Colette, Les Maison de Colette, Le Louvre des Antiquaires, Paris 1991.