n 4 riNDICFpag 401 ■■dei libri del me5ehì Hannah, con indiscrezione di Cesare Piandola Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975. Per amore del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1990, ed. orig. 1982, trad. dall'inglese di David Mezzacapa, pp. 639, Lit 80.000. Elisabeth Young-Bruehl, che è stata allieva di Hannah Arendt alla New School for Social Research di New York, analizza nelle loro interazioni e nei loro rimandi vita privata, dimensione pubblica e sviluppi del pensiero della sua insegnante, contravvenendo alla preoccupazione costante in Hannah Arendt di tenere accuratamente distinti i diversi piani e soprattutto di tenere la sua persona al riparo da incursioni indiscrete. Sono infatti molto rari i testi autobiografici che la Arendt produsse (uno dei più interessanti è l'intervista rilasciata a Gùnther Gaus nel 1964: Che cosa resa? Resta la lingua materna, ora tradotto nel n. 239-240, 1990, di "Aut aut", curato da A. Dal Lago e interamente dedicato al "pensiero plurale di Hannah Arendt"). La Arendt manifestava anche una certa diffidenza per il genere biografico applicato a individui come lei. Facilitò tuttavia il compito del futuro biografo raccogliendo accuratamente e lasciando agli archivi di istituzioni pubbliche tedesche e americane non solo gli ampi carteggi, ma documenti come il diario della madre sui suoi primi anni, le poesie giovanili (riprodotte in appendice dalla Young-Bruehl nella lingua originale), una confessione autobiografica scritta a diciannove anni, all'epoca della sua relazione amorosa con Heidegger: materiali ampiamente citati e commentati dalla Young-Bruehl. In un caso poi praticò quella che Young-Bruehl chiama efficacemente "la biografia come autobiografia" (p. 117): il libro che Hannah Arendt scrisse su Rahel Varnhagen. Nei primi undici capitoli, completati nel 1933, prima della fuga da Berlino, il motivo conduttore è "la lotta di Rahel con la propria identità di ebrea". Negli ultimi due capitoli, scritti nel 1938 a Parigi, su sollecitazione del marito Heinrich Bliicher e di Walter Benjamin, "acquistano spicco le implicazioni politiche del ritorno, sofferto e sempre ambiguo, di Rahel alla sua ebraicità" (p. 123). La biografia di Rahel è la storia di un'assimilazione impossibile e di una presa di coscienza. Questa è anche la storia della giovinezza di Hannah Arendt, che chiamò Rahel "la mia più intima amica anche se è morta da più cent'anni". Kurt Blumenfeld, uno dei personaggi più influenti del sionismo tedesco, l'aiutò nella sua presa di coscienza, anche se Hannah non lo seguì completamente perché "l'idea dell'emigrazione in Palestina non fece mai parte del suo programma di vita" (p. 104). Il ricco inserto fotografico inizia con una veduta di Kònigsberg intorno al 1900. Elisabeth Young-Bruehl racconta le vicende degli Arendt e dei Cohn, famiglie di ebrei tedeschi benestanti integrati nella città di jCant, ammiratori di Goethe e della cultura della Bildung, politicamente liberali o socialdemocratici. Ma, scrisse Hannah nel 1963 a Gershom Scholem (che non apparteneva per lei alla categoria dei "superdotati ammattiti", come viene tradotto a p. 349, bensì a quella dei "highly culti-vated overreachers", supercolti che sopravvalutano le proprie forze), "da giovane non ero interessata né alla storia né alla politica. Se posso dire di 'provenire da qualche parte', è dalla tradizione della filosofia tedesca". La filosofia tedesca del tempo era in piena rinascita kierkegaardia- na. A Berlino Hannah seguì le lezioni di Romano Guardini su Kierkegaard e scelse la teologia come corso principale. La dissertazione di dottorato sostenuta a Heidelberg nel 1928 era "un lavoro di filosofia esistenziale" (p. 105) sul concetto di amore in Agostino, un autore su cui lavorava anche l'amico Hans Jonas. Ma se Jaspers doveva essere per Hannah, che aveva perso il padre giovanissima, un secondo padre e, nel dopoguerra, il collegamento vi- strega nazista, sospettosa e possessiva, e padre di due figli, prima ricambiò la passione, poi allontanò Hannah e la indirizzò alla scuola dell'allora amico Jaspers a Heidelberg. Tuttavia continuarono a vedersi fino alla partenza di Hannah per Berlino nel 1929 e una vera rottura si ebbe solo quando Heidegger aderì al nazismo. Riferendosi alla vicenda politica di Heidegger, nel 1946 Hannah Arendt scrisse sulla "Partisan Re-view" un giudizio molto duro e signi- ficativo: era una "vera farsa", da mettere in relazione al "basso livello del pensiero politico nelle università tedesche"; Heidegger "è l'ultimo (speriamo) romantico: una specie di Friedrich Schlegel o Adam Muller", un enorme talento totalmente irresponsabile (p. 257). È un giudizio nel quale c'è condanna e ammirazione, presa di distanza e disposizione alla riconciliazione. In effetti nei suoi viaggi europei, fin dal 1949, Hannah Arendt rivide Heidegger e si adoperò tanto instancabilmente quanto senza successo nel tentativo di riannodare l'amicizia tra Heidegger e Jaspers. C'è anche da chiedersi se la teoria arendtiana, abbastanza stravolgente, secondo cui i filosofi abitano il regno H fiore e la Rivoluzione di Massimo Mori Hannah Arendt, Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, Il Melangolo, Genova 1990, ed. orig. 1982, trad. dall'inglese di Pier Paolo Portinaro, Carla Cicogna e Maurizio Vento, p. 213, Lit 26.000. Il titolo originale — declassato a sottotitolo nell'edizione italiana — meglio informava sul carattere di quest'opera postuma di Hannah Arendt: Lezioni sulla filosofia politica di Kant (tenute a New York nel 1970). All'interno del pensiero politico kantiano l'autrice ritaglia tuttavia un argomento privilegiato: la rivoluzione francese. L'importanza di questo avvenimento risiede per Kant non tanto nei suoi concreti effetti storici — non privi di "miseria e crudeltà" — quanto nella "partecipazione universale e disinteressata" di coloro che vi assistono senza esseme coinvolti: indipendentemente dagli esiti della rivoluzione, questo entusiasmo libero da considerazioni di utilità personale è un "segno" che lascia sperare nel carattere progressivo dell'intera storia umana. Scopo delle Lezioni della Arendt — e cosisi giustifica anche il titolo italiano — è appunto chiarire la natura di questo giudizio kantiano e, conseguentemente, del giudizio politico in generale. Esso non è infatti il giudizio "costitutivo" della Ragion pura, il quale consente la formulazione di conoscenze scientifiche attraverso la riconduzione dei fatti particolari alle leggi generali della natura (e del pensiero umano): non si tratta qui di spiegare la rivoluzione in quanto "fatto". Non è neppure il giudizio "morale" della Ragion pratica che valuta anch 'esso la singola azione sulla base dell'universalità dell'imperativo categorico: la ragione condanna i misfatti dei rivoluzionari. Esso è piuttosto assimilabile a quel giudizio "riflettente" che nella Critica del giudizio trova la sua più comune espressione nel giudizio estetico o di gusto. Qui il particolare non viene più sussunto sotto regole generali, ma è esso stesso portatore di un valore universale: è il fiore particolare, che io vedo e tocco, a esprimere l'universalità della bellezza. Si spiega così che l'entusiasmo provato dagli "spettatori" della rivoluzione possa diventare il sintomo di una valutazione che coinvolge tutti gli uomini e investe il carattere generale della storia. Ma ciò è possibile per due ragioni. In primo luogo il giudizio riflettente è strettamente connesso con l'immaginazione, cioè con la facoltà di rappresentare anche ciò che non è più attualmente percepito. Spogliata della sua realtà pratica, la rappresentazione diventa oggetto di una considerazione imparziale o, come dice Kant, "disinteressata ": quella propria appunto degli "spettatori" che giudicano la rivoluzione senza parteciparvi. In secondo luogo, il giudizio riflettente si fonda sul "senso comune", cioè su una convergenza nelle valutazioni che non dipende né dall'intelletto né dalla cultura: tutti sono d'accordo nel dire che un fiore è bello. In questa traslazione del giudìzio di gusto dall'ambito estetico a quello politico consiste il principale interesse del libro della Arendt. Operazione che riceve un ulteriore significato dal fatto che al "giudicare" doveva essere dedicata quella terza parte della Vita della mente — dopo il "pensare" e il "volere" — che non vide mai la luce. Questo significa anche, ovviamente, che il libro dev'essere letto più come saggio teorico della scrittrice ebrea che come un contributo storico-filologico allo studio di un Kant che, forse, difficilmente si riconoscerebbe nelle tesi arend-tiane. vente con "la tradizione della filosofia tedesca", il rapporto più complesso, mai completamente risolto né sul piano personale né su quello filosofico, fu con Martin Heidegger. E su questo rapporto si sono soprattutto soffermati i recensori quando il libro apparve in inglese nel 1982 (è anche al centro di un articolo di Ernest Gellner, acuto e malevolo, sia nei confronti della biografa che nei confronti di Hannah Arendt, ora in Culture, Identity and Politics, Cambridge University Press, 1987, pp. 75-90). Hannah Arendt si innamorò della fenomenologia e di Heidegger a diciotto anni, quando frequentò le sue lezioni a Marburg. Heidegger stava lavorando sui materiali confluiti poi in Essere e tempo e in Kant e il problema della metafìsica, e appariva ai suoi studenti "un uomo straordinario e magico" (p. 80). Era soprannominato, dice Lowith nella sua autobiografia, "0 piccolo mago di Messkirch". Heidegger, più anziano di diciassette anni, sposato a Elfriede, che la Young-Bruehl presenta come una OIKOS Rivista quadrimestrale per una ecologia delle idee diretta da Mauro Ceruti e Enzo Tiezzi Furio Jesi MITOLOGIE INTORNO ALL'ILLUMINISMO A. Kamenskij - F. Sologub -V. Brjusov RACCONTI DEL DECADENTISMO RUSSO G.W.F. Hegel VIAGGIO NELLE ALPI BERNESI Edgar Morin PER USCIRE DAL VENTESIMO SECOLO AA.VV. JOHN M. KEYNES Linguaggio e metodo Theodor Hierneis IL RE È A TAVOLA Ricordi di un cuoco di Luigi di Baviera Francesco Petrarca ITINERARIO IN TERRA SANTA PIERLUIGI LUBRINA EDITORE V.le V. Emanuele, 19 - 24100 Bergamo - Tel. 035/223050 separato del pensiero e sono generalmente incapaci (la Arendt salva quasi solo Kant) di orientarsi in modo giusto nella politica, non derivi dalla meditazione, intrisa di fascinazione e di ripulsa, sul caso Heidegger. Di fatto per molti anni la Arendt rifiutò di essere annoverata tra i filosofi e disse di praticare la teoria politica, che presuppone l'interesse positivo per il mondo dei rapporti interumani invece del contemptus mundi di gran parte della tradizione filosofica. Certo è che stupiscono alcuni fatti riportati dalla Young-Bruehl: l'ansia con cui Hannah Arendt interroga una grafologa sulla vita privata di Heidegger (p. 351); la reazione autocolpevolizzante all'ostilità con cui Heidegger accolse la traduzione tedesca di Vito adiva nel 1961 ("Per tutta la vita l'ho, praticamente, imbrogliato... come se per così dire non fossi capace neanche di contare fino a tre, tranne che quando si trattava di interpretare le sue stesse cose... ", ibid.)-, la decisione di attenuare o di non rendere pubbliche le sue critiche al filosofo. L'interpretazione della Young-Bruehl però non scava molto, dimostrando il limite maggiore di questa pur interessante biografia: come ha scritto Gellner, "tutto è visto moltissimo dal punto di vista di Hannah". E talvolta i risultati sono francamente banali. Poiché la Arendt aveva detto che Heidegger era L'ultimo romantico" la Young-Bruehl commenta: "Che Heidegger desiderasse pensare a lei come a una musa e non come una sua pari sul piano intellettuale, è chiaro: il suo amore per lei era di natura romantica... D'altronde era certamente presente dentro di lei una donna dell'epoca romantica, o quanto meno una Rahel Varnhagen; e questo fin dai tempi del suo amore giovanile per Heidegger... " (p. 352). Più interessante è questo bilancio conciso: "Hannah Arendt aveva sempre ritenuto che Heidegger fosse un 'filosofo per filosofi': pur pensando a se stessa come a una teorica della politica, teneva il lavoro recente di lui sempre sullo sfondo del suo. E quando si volse di nuo-vc\a un'opera che considerava vera filosofia, La vita della mente, gli ultimi lavori di Heidegger, soprattutto le sue riflessioni sul pensiero e sul linguaggio, tornarono a essere al centro dei suoi interessi. Mai però con un atteggiamento acritico... " (p. 348). Comunque questa biografia non è tutta intessuta sul pur importante rapporto con Heidegger (su cui bisognerà vedere il carteggio del filosofo, quando sarà pubblicato). La ricostruzione della genesi delle opere arend-tiane e il resoconto delle discussioni che suscitarono sono accurati e forniscono molti elementi di riflessione. Una miriade di personaggi grandi e piccoli è disegnata nitidamente e con ricchezza di informazioni. Almeno uno deve essere ancora ricordato: Heinrich Blucher a cui è dedicato Le origini del totalitarismo, un proletario berlinese, ex spartachista, autodidatta, uomo d'azione costretto all'inazione, "rivoluzionario mancato" (p. 169), che Hannah Arendt conobbe a Parigi nel 1936 nell'ambiente degli emigrati apolidi e sposò in seconde nozze (il primo marito era stato Gùnther Anders, al quale la Young-Bruehl dedica scarso rilievo). Blucher, del quale Hannah Arendt scrisse: "grazie a mio marito ho imparato a pensare politicamente e a vedere le cose con senso storico", è il suo interlocutore privilegiato fino alla morte, nel 1970. E un merito della Young-Bruehl l'aver ricostruito minuziosamente la sua figura e l'importanza che ebbe per l'attività politica e intellettuale della moglie: cosa che soltanto una biografa poteva fare, perché Blucher, che non scrisse quasi nulla, non comparirebbe in uno studio di altro genere. E questo un caso in cui la "biografia all'inglese" si dimostra insostituibile.