n 4 l'INDICF - ; ^■|dei libri del meseh Un picaro non fa storia di Aldo Ruffinatto José Antonio Maravall, La letteratura picaresca. Cultura e società nella Spagna del '600, a cura di Rinaldo Froldi, Marietti, Genova 1990, ed. orig. 1986, trad. dallo spagnolo di Sandra Ascoli e Enrica Zaira Merlo, 2 voli, di complessive pp. 1011, Lit 130.000. "Testamento storiografico" è la definizione che Rinaldo Froldi (curatore dell'edizione italiana) applica a questo immenso lavoro di Maravall, pubblicato in Spagna appena pochi mesi prima della sua morte avvenuta nel 1986. Un testamento a lungo meditato, se è vero, come afferma il curatore, che alle sue spalle stanno almeno cinque lustri di appassionate ricerche. D'altro canto, la competenza specifica di Maravall nell'ambito rinascimentale e barocco della cultura spagnola è fuori discussione, se si pensa ai suoi numerosi studi sul pensiero politico all'epoca di Carlo V, sul mondo sociale della Celestina, sulla modernità di Velàzquez e sul concetto di stato nei secoli XVI e XVII, elaborati tra gli anni cinquanta e settanta; sicché appare del tutto superfluo disegnare in questa sede un profilo scientifico dell'autore a sostegno della sua produzione. È raro che "L'Indice" ospiti un'ampia recensione di tono negativo come questa di Ruffinatto al libro di Maravall. Abbiamo tuttavia ritenuto opportuno pubblicarla integralmente perché la polemica non investe la personalità dell'illustre studioso scomparso, bensì le posizioni metodologiche che stanno alla base della sua vasta sintesi e che a noi sembrano decisamente superate. Meno superfluo e, forse, meno banale di quanto non sembri a prima vista, può risultare un primo rilievo sulla traduzione italiana del titolo di quest'opera; nella versione originale spagnola si legge, infatti: La literatu-ra picaresca desde la bistorta social, dove quel "desde" vuole evidenziare il punto di vista adottato dallo studioso per l'analisi di un determinato fenomeno letterario. Prospettiva che la traduzione italiana ignora nel momento in cui il nesso preposizionale viene cancellato a favore di uno smembramento del titolo in due frasi distinte. Ma questa apparente prevaricazione compiuta dal traduttore non è priva di motivazioni testuali giacché la ponderosa ricerca di Maravall sembra muoversi costantemente al confine tra due mondi, quello letterario e quello storico-sociale, con repentini e frequenti spostamenti dall'uno all'altro alla ricerca di una realtà sempre sfuggente, spesso contraddittoria e ancor più spesso ambigua. A ben guardare, il titolo originale spagnolo, in rapporto ai contenuti e ai temi trattati in quest'opera, può funzionare benissimo anche leggendolo a rovescio, assegnando, cioè, alla storia sociale un ruolo preminente rispetto alla letteratura e lasciando a quest'ultima il compito di fornire gli strumenti d'appoggio: "La historia social desde la literatura picaresca". In entrambi i casi, comunque, per una più precisa valutazione degli argomenti trattati da Maravall, è richiesta una doppia competenza, storica e letteraria; per tale motivo, queste mie impressioni, suggerite prevalentemente dal coinvolgimento del prodotto letterario nel contesto storico-sociale, reclamerebbero l'intervento di un esperto dell'altro settore, non tanto in vista di una rigorosa separazione dei compiti quanto di una maggiore ricchezza di termini ermeneutici applicati allo stesso oggetto d'indagine. E tuttavia, anche se in questa circostanza il dominio della recensione vien lasciato per intero a chi si muove specificamente in ambito letterario, tutti sanno quanto sia centrale nella meditazione critica di molti "letterati" la valutazione dei rapporti tra il mondo "possibile" creato e disegnato da un autore e la realtà sto-rico-sociale che lo circonda. Sull'argomento sono state scritte migliaia di pagine da parte di studiosi appartenenti alle diverse scuole; ma su un punto, mi pare che l'accordo sia ormai pressoché generale, ovvero sul superamento delia teoria vetero-mar-xista del rispecchiamento. Alla stessa, invece, sembra in molte circostanze aderire il pensiero estetico di Maravall, anche se alla base della sua formazione culturale e ideologica non sta certo la filosofia marxista ma la più intimista e meno rivoluzionaria filosofia di Ortega y Gasset. Di ciò, tuttavia, cioè del suo incauto e non voluto avvicinamento ad alcuni termini dell'estetica marxista si rende conto lo stesso Maravall, quando si trova costretto a introdurre tutta una serie di categoriche negazioni relative ad alcune conseguenze che si potrebbero trarre dalle sue argomentazioni. Dopo aver detto, infatti, che la produzione picaresca confluisce in un fiume di opere che denunciano la gravità'della situazione sociale della Spagna all'inizio del XVII secolo, e che tale letteratura espone una chiara presa di coscienza e descrive in modo stimolante una situazione alla quale s'intende porre rimedio (p. 9), e dopo aver aggiunto che negli epigoni del genere picaresco si sentono le voci della rassegnazione, della ven- detta, del risentimento contro un edificio che sta ormai per crollare (p. 10), Maravall non può fare a meno di mettere le mani avanti per scansare i possibili equivoci: "Tutto ciò — egli afferma — per me non significa che la letteratura ci fornisce il ritratto di una società. Né in questo «éin nessun altro caso, né la commedia barocca spagnola da una parte, né il romanzo picaresco dell'altra sono documenti realistici, e non lo sono mai, dall'inizio alla fine di questo fenomeno" (p. 10; il corsivo è mio). Negazioni, ripeto, categoriche ma con un sottofondo, per cosi dire, freudiano facilmente avvertibile. Tant'è che, poco più avanti, nell'intento di precisare meglio il suo pensiero, Maravall fa rientrare dalla finestra tutto ciò che poco prima aveva sdegnosamente cacciato dalia porta: "La letteratura — soprattutto il teatro e il romanzo picaresco — non è un ritratto, ma piuttosto una testimonianza che riflette un'immagine mentale della società; può non avere sempre un corrispettivo nella realtà, né cercarvi corrisponden- ze fedeli, ma non per questo è meno reale la partecipazione attiva della letteratura nella vita dei diversi gruppi" (p. 11; il corsivo è mio). Dalle attenuazioni palesi delle perentorie affermazioni precedenti traspare la sua necessità di recuperare, ob-torto collo, alcuni principi che in larga misura coincidono con un indirizzo ideologico diametralmente opposto al suo. Il fatto è che Maravall, nell'intero corso di questo suo denso studio, non riesce mai a liberarsi da un equivoco di fondo, cioè dall'incerta e indeterminata posizione del fenomeno picaresco relativamente agli ambiti di riferimento. In altre parole, tanto il pfcaro eroe all'interno di un ro- manzo picaresco quanto l'individuo al quale può essere assegnata questa qualifica, nella Spagna del Seicento, emergono dalle stesse "fonti", siano esse di carattere specificamente letterario (e a questo proposito lo studioso afferma di aver preso in considerazione non soltanto i romanzi picareschi tradizionalmente riconosciuti come tali, ma anche tutta quella parte della produzione narrativa, drammatica, didascalica che contempla in qualche misura la figura di un emarginato o di un "devian-te"; praticamente tutta le letteratura spagnola del Seicento ad eccezione della lirica), oppure di carattere più propriamente documentario (come i rapporti giudiziari penali, gli atti delle Cortes, i consulti del Consiglio di stato, i memoriali e cosi via). Di qui un senso di smarrimento nell'animo del lettore, per il quale risulta assai difficile in molti casi determinare di chi si stia parlando, se del pfcaro reale (dato, ma non concesso, che questo individuo abbia mai fatto la sua comparsa nella società spagnola dell'epoca) o del pfcaro immaginario. Per esempio, quando nel corso del primo capitolo, dedicato al concetto di povertà e di povero dal medioevo al principio dell'età moderna, si parla delle corporazioni di mendicanti (pur avvertendo che il termine "corporazione" va qui inteso in senso metaforico) e si osserva che il pfcaro, lungi dall'aderire al gruppo, si limita a contemplare questo fenomeno dall'esterno (pp. 63-64), a quale pfcaro s'intende fare riferimento? A quello reale, a quello immaginario, o a tutti e due? Ma anche limitatamente al pfcaro immaginario, qual è il personaggio che vien chiamato in causa? Non certo il proto-pfcaro Lazarillo che della mendicità fa la professione principale per un lungo periodo della sua vita; e nemmeno il pfcaro per antonomasia Guzmàn de Alfarache, maestro nell'arte dell'accattonaggio tanto nelle contrade italiane quanto in quelle spagnole; e tanto meno la picara Justina che assume con estrema naturalezza le fattezze delia mendicante. L'unico pfcaro immaginario che in qualche modo risponde alle caratteristiche indicate da Maravall è Pablos, in arte il Buscón di Quevedo. E lui, infatti, che dopo essere entrato in contatto con una compagnia di hi-dalgos-poveri o di illustri mendicanti, che dir si voglia, rifiuta questo stile di vita e si avvia verso altre esperienze, sospinto dal "desiderio di ascesa sociale coniugato con l'isolamento individualistico del suo comportamento sociale deviarne". Ma è sufficiente la testimonianza di Pablos per estendere questo suo modello di comportamento a tutti gli altri pfcaros, reali o immaginari? La tendenza a conferire carattere di universalità a comportamenti che sono invece particolari e per di più appartenenti a dimensioni immaginarie (tendenza chiaramente prevaricatrice, come abbiamo visto) si manifesta anche in alcuni capitoli successivi, nei quali vengono affrontati altri temi come la ricchezza, il potere e la posizione sociale (cap. II), la visione dicotomica della società data dall'opposizione ricchi-poveri (cap. Ili) e l'evoluzione del concetto di lavoro e di lavoratore (cap. IV). Ma dove maggiormente traspare l'attività prevaricatrice del particolare è nel capitolo V, là dove alcuni aspetti testuali assolutamente irrilevanti per la loro banalità (come, ad esempio, il fatto che in alcune commedie di Calderón e di Lope il padrone si rivolga al ser-vitore-gracioso chiamandolo "pazzo") vengono enfatizzati e così artificiosamente strumentalizzati da porsi al servizio di una tesi quanto meno opinabile: la parentela del gra-cìoso con il folle (il matto-filosofo delia cultura rinascimentale), il suo presunto coinvolgimento nella Moria erasmiana, nel "mondo alla rovescia", e il suo conseguente collegamento per questa via alla figura del pfcaro (pp. 276-93). Non occorre essere esperti in materia per avvertire quanto tutto ciò sia lontano dalla specifica funzione di questo personaggio nel teatro di Lope e dei suoi seguaci, dove il gracioso viene introdotto per stemperare gli eccessi della vis drammatica e per dare "verosimiglianza" a un prodotto che se si fosse limitato alla sola dimensione tragica avrebbe rischiato di diventare noioso. Altrettanto arditi, ma questa volta per la loro discordanza cronologica, appaiono altri collegamenti, proposti da Maravall in funzione didascalica, come, ad esempio, quello tra il pfcaro e il rail roadman dei tempi della depressione americana del 1929 (pp. 304-5), oppure il collegamento tra le condizioni economiche della Spagna del XVII secolo e quelle del presente nel mondo occidentale, favorevoli entrambe — secondo lo stesso Maravall — alia comparsa del fenomeno ÌD Molte donne intorno all'Iliade di Carlo Ferdinando Russo Omero, Iliade, a cura di Maria Grazia Ciani, commento di Elisa Avezzù, Marsilio, Venezia 1990, testo greco a fronte, pp. 1142, Lit 60.000. L'argomento dell'Iliade venne istoriato una mattina da Elena: concentrata e silenziosa sedeva solitaria nel talamo, davanti al telaio della propria storia; le ultime notizie arrivano con l'assistente. Elena incontra poco dopo il cognato guerriero: "Ettore, io sono una cagna odiosa e tremenda, ma noi diventeremo famosi, tutti noi saremo cantati fra gli uomini del futuro". La don-na-pegno è naturalmente la sosia dello scrittore Omero; Omero in greco è "pegno, ostaggio". Sono passati ventisette secoli ed Elena con la sua tela è sempre sugli spalti; e oggi, nella terra che vanta Monti e Privitera, è riapparsa in femminee forme: le forme di Maria Grazia Ciani e di Elisa Avezzù, e ancora quelle di Madame de Sta'èl e di Lalla Romano ambedue intorno a Monti; anche è riapparsa la pupilla di Cesare Pavese e di Fausto Codino, la einaudiana Rosa Cal-zecchi Onesti, ma si è visto anche Arnaldo Bruni con /'Esperimento di traduzione dell'Iliade di Ugo Foscolo unito alle traduzioni di Cesarotti e Monti (ed. Zara, Parma) e non taccio Lo scrittoio di Ugo Foscolo del poliedrico Vincenzo Di Benedetto (recensito sul n. 10, 1990, dell" 'Indice" da Marco Cerniti). Altre femmìnee forme si sono intraviste or ora: la giovanissima figlia di Omero decorava diacriticamente la pinacoteca del padre, come Andromaca decora la tela coi fiori diacritici. E sposa da poco al responsabile delle tavolette, un poeta giovanissimo che veniva da Calcide, dalla corte del principe Anfidamante; ai funerali di Anfidamante si scontrano Esiodo e Omero: Omero perde e risponde nel libro dei Giuochi dell'Arte, le gare per Patroclo. Putti hanno paura della traduzione interlineare, vagheggiata da Gianfranco Contini: Rosa Calzecchì Onesti operò un calco, in prosa spezzata linea per linea, volutamente arcaizzante; a poco a poco se ne scoprirono i nei: l'editore non li ha mai rimossi (ora ha corretto le parole grecale). Quando uscì nel 1950 le fummo grati per l'asciuttezza arcaica e anche per la singolarità sognante della sintassi. La Rosa dalla parte di Omero, la Grazia dalla parte dei moderni: un confronto fra le due dà il risultato di Calcide; lì Omero non vinse, qua vince la Ciani; ma il suo volume, panciuto com'è, non entra bene nella borsa del recensore. La Ciani non è precisamente una seguace di Paul Maas, ma piuttosto di un Homo Graecus come Carlo Diano, il filosofo di Vibo Valentia-Padova, traduttore classico di Platone, Euripide, Eraclito. Anche la Ciani è un'aristocratica, in prosa, e la pietra sisifia di Faust diventa in lei levigata (qualche alleggerimento verbale è causato dalla mancanza di note). La facciata e gli interventi: comunemente il testo omerico viene presentato in blocchi tipografici sgomentanti; invece la pagina marsìlìana è in genere diacritica, ariosa, gli interventi parlanti risaltano come voleva Platone nella sua geometrica Accademia. Platone traduceva Omero in prosa tendenziosa, premettendo: "non mi riesce tradurre in poesia". Nella quarantina di pagine della prefazione mi è piaciuta la sceneggiatura comica di Christopher Morley, Il cavallo di Troia, tradotto e prefato da Cesare Pavese. Basilare il cenno alla Dolonia, al