GENNAIO 1993 - N. 1. PAG. 4 Il Libro del Mese Parlami di Mauschwitz di Guido Fink Art Spiegelman, Maus. Racconto di un sopravvissuto, voi. II: E qui cominciarono i mìei guaì, Rizzoli-Milanoli-bri, Milano 1992, trad. di Ranieri Carano, lettering di Nicoletta Cortese, pp. 140, Lit 20.000. "Basta! Parlami di Auschwitz!" grida esasperato, all'inizio del secondo capitolo, il protagonista (e narratore) Art al padre Vladek, che continua a prendersela con l'assente seconda moglie e a lamentarsi per aver speso inutilmente, e per colpa sua, ben quindici dollari. Quel che Art vuole sentire, e registrare a futura memoria, per poi utilizzarlo nel libro che stiamo leggendo, è il resoconto di ben altre sofferenze, quelle affrontate da Vladek nel campo di sterminio. La prima parte, raccolta in volume nel 1986 dopo l'uscita a puntate su "Raw" e in Italia su "Linus", seguiva le vicende di Vladek nel Vecchio Mondo, provvisoriamente abbandonandolo, insieme alla prima moglie Anja, sulle soglie del lager: e qui, come suona il sottotitolo del libro, con una sorta di sereno understatement o di rassegnato umorismo jiddish, "cominciarono i miei guai". Solo che Auschwitz è Mauschwitz, gli ebrei sono topi, i nazisti gatti feroci, i polacchi porcellini; gli americani — quando finalmente arrivano — sono grossi cani bonari. E il tutto, naturalmente, ci viene raccontato a fumetti, con il bianco e nero nitido ed essenziale di Spiegelman e i baloons, benissimo tradotti da Ranieri Carano, che riproducono, nelle parti dialogate, il commovente cattivo inglese degli emigrati orientali e centro-euro-pei. Non destano più alcuno scandalo, ormai, le maschere animalesche, consacrate fin da tempi remoti dalle più classiche tradizioni favolistico-didat-tiche, né la violazione — tante volte effettuata, e per necessità di cose, in un mondo privo di memoria storica ■■— del tabù wieseliano per cui la letteratura dell'Olocausto sarebbe un ossimoro e comunque da evitare. Nato alla fine degli anni settanta, come ha dichiarato a Stephen Bolhafner lo stesso Spiegelman, sulle ceneri dell'ormai tramontata stagione dell'underground, il gruppo della rivista "Raw" si è ormai conquistato un notevole prestigio, non più limitato alla costa est degli Stati Uniti e nemmeno ai soli Stati Uniti: forse perché ha inconsapevolmente provveduto, in un certo senso, a ricucire la frattura edipica che la precedente generazione — quella dei comici ebrei irriverenti e trasgressivi, alla Mort Sahl o alla Lenny Bruce — aveva cercato di portare fino a un punto di non ritorno. Dubitosa riscoperta delle radici o ritorno del rimosso, la presenza dei Padri è ossessiva in Spiegelman e in altri suoi compagni di cordata, come i fratelli Drew e Josh Alan Friedman: i quali, nelle macabre fantasmagorie di Any Similarity to Persons Living or Dead.is Purely Coincidental (1985), ripescano dalle frequentazioni televisive dell'adolescenza comici per lo più ebrei, per lo più modesti, per lo più dimenticati, e ne tratteggiano la sopravvivenza o il declino con un misto di crudeltà e di affetto condiscendente. Tanto che un osservatore nostrano, Franco Minganti, ha potuto accostarli proprio a Matts: che cos'è infatti questo multiplo viale del tramonto se non una versione dell'Olocausto, o almeno della fine di una generazione e di una cultura, nei termini, ovviamente meno mostruosi e meno sanguinosi, della civiltà dello spettacolo? Non c'è traccia, né in Spiegelman né nei Friedman, di "nostalgia": ai loro occhi il mondo dei padri, finiti nelle camere a gas o in squallide camere mobiliate in California o in Florida, rimane pur sempre incomprensibile. Ma non per questo rinunciano a interrogarlo: si direbbe, al contrario, che non riesca- no a pensare a nient'altro. (A Bolhafner, che gli chiedeva se avesse davvero dialogato a lungo con il padre, durante i tredici anni di lavoro a Maus, Spiegelman rispondeva di sì: "forse è stato proprio un modo di mantenere un legame con lui; ma in certo senso il rapporto è migliore adesso che lui è morto"). , glie che non è nata ebrea, ha raccontato durante un viaggio in macchina tutti i suoi complessi di colpa, per aver avuto una vita più facile dei suoi genitori, per non essere stato ad Au-schiwtz o a Birkenau come loro, per non essere stato ucciso durante la guerra come il fratellino Richieu: una serie di complessi diffusi fra gli ebrei Ebreacci e negracci dì Roberto Giammanco Nel gennaio 1991, pochi giorni prima che si alzassero i bombardieri, ]ean Baudrillard uscì con una delle più macabre ideologizzazioni di pubblicità postmoderna. Scrisse che la guerra del Golfo non ci sarebbe mai stata in quanto esisteva già e nella sola maniera possibile: "Come un'appendice della simulazione dei media, come retorica dei war games o come uno di quegli scenari immaginari che vanno aldi là dei limiti del reale, di ogni possibilità fattuale". Non è un caso che non esista più la dichiarazione di guerra. Infatti, una volta perduto il senso del passaggio dalla "guerra a parole" — la simulazione dei media contiene già tutte le domande e le risposte — alla cosiddetta realtà", tutto avviene solo nell'immaginario delle masse teleutenti. In questa "iper-realtà" è irrilevante e soprattutto indifferente, che i bombardieri si alzino o no. Nel secondo volume di Maus, la chiave di lettura dello scenario è nei sottotitoli: E qui cominciarono i miei guai (And here My Troubles Be-ganj e Da Mauschwitz ai monti Catskill e oltre (From Mauschwitz to the Catskill and Beyondj. Definiscono il perimetro della "fattualità" della Endlòsung, la soluzione finale per le razze definite "inferiori" (ebrei, zingari e slavi), dagli ebrei vissuta e definita come Olocausto. C'è chi, sul risvolto di copertina dell'edizione originale, presenta questo enigmatico, angoscioso "romanzo grafico" di Art Spiegelman come "un raccontino (little tale) fatto di sofferenze, humour e delle contrarietà (trialsj della vita quotidiana", da leggere tutto d'un fiato: "quando si finisce si resta col disappunto di dover lasciare quel mondo magico". Il mondo allucinato, "iperreale", di Mauschwitz-Auschwitz è tutto interno all'allucinante itinerario di Artie alla ricerca di un'identità, lui che è nato negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale. È un mondo in cui ci sono due sole possibilità: essere carnefici o vittime. Un'organizzazione capillare, quasi automatica, dello sfruttamento di "manodopera a perdere" è tanto interiorizzato sia dalle vittime sia dai carnefici che non ha bisogno né di odio personale né di definizioni ideologiche. Il terrore assoluto, necessario alla "produttività di morte e di profitti" di Mauschwitz-Ausch-witz, condiziona ogni possibile sopravvivenza alla guerra di tutti contro tutti: le vittime sono potenziali carnefici-superstiti. Né trasfigurazioni fiabesche, allegorie o disneyzzazioni: solo definizioni normali, indistruttibili dell'universo razzista e della sua banalità, assunte da Art Spiegelman che è alla ricerca della sua personale identità. I topi sono gli ebrei in quanto definiti dai nazisti che, a loro volta, si definiscono come gatti, gli sterminatori dei topi. I polacchi, anche loro definiti dai nazisti-gatti ma insieme nemici acerrimi dei topi-ebrei, hanno il grugno del maiale mentre, per definizioni autoctone, i canidi sono gli americani, le rane i francesi e i cervi gli svedesi. Tutti sono l'immagine della disumanizzazione. Maus è la cronaca di come questo è vìssuto da Artie attraverso la vittimizzazione che fa di lui, delle due mogli e di tutti gli amici e parenti suo padre Vladek, vittima-carnefice/vittima-supersti-te di Mauschwitz-Auschwitz. Nella sua nuova vita negli Stati Uniti il vecchio rievoca le sue sofferenze, ma a frammenti, per poter ricattare tutti con mali veri e presunti (ha sempre pronto il finto attacco cardiaco). Vladek li colpevolizza con calcolato vittimismo, va- > Proprio come non è "un romanzo a fumetti", ma caso mai il "fumetto di un fumetto", un'accorata serie di interrogativi e di perplessità autoriflessive, Maus II non è del resto una biografia del vecchio Vladek, delle sue esasperanti tirchierie, dei suoi incredibili capricci, o del giovane Vladek e della sua altrettanto incredibile capacità di resistere, della sua ammirevole e incrollabile volontà di sopravvivere a ogni costo. E invece, come ha notato Joseph Witek, un'autobiografia del giovane Art, che vediamo all'inizio del secondo capitolo, mentre cerca di tradurre i racconti paterni in una serie di disegni sul suo amato cartoncino Bristol o mentre esprime i suoi dubbi alla moglie o all'analista: in queste scene la maschera da topo, altrove surrealisticamen-te coesistente con corpi umani e troppo umani, rischia davvero di scivolare via o comunque lascia intravedere, specie se vista di profilo o dal retro, i lacci che la sostengono, la capigliatura e la barba mai rasata dell'uomo Art. E prima ancora, alla mo- della sua generazione, e che in realtà andrebbero segnati sul conto, già così non quantificabile, dei responsabili dello sterminio. "Mi sento inadeguato", dice Art, "a ricostruire una realtà peggiore dei miei sogni peggiori. E cercare di farlo con un FUMETTO! È impresa superiore alle mie forze. Forse dovrei lasciar perdere". Questa cornice, e i frequenti ritorni al qui e ora del presente, in cui la storia viene ricostruita, soppesata e trasformata nelle strisce che stiamo leggendo, tendono a distanziare l'orrore di "Mauschwitz", a sottolinearne la natura fatalmente "inautentica": ma Spiegelman va ancora oltre, fino a denunciare la non-autenticità degli stessi momenti autoriflessivi. Alla moglie che, in risposta ai dubbi sopra citati, cerca di incoraggiarlo a "essere onesto e basta", Art risponde: "capisci cosa intendo? nella realtà non mi avresti mai lasciato parlare tanto senza interrompermi". Di qui il paradosso di Maus II, che è poi il paradosso di tutta la fiction (e metafiction) moderna: da un lato la consapevolezza che niente potrà essere vero, dall'altro il bisogno maniacale di sapere, di investigare, di documentarsi, di inglobare tutto il possibile all'interno del racconto. "Voglio quella foto nel mio libro!" grida Art a Vladek, riferendosi a una foto del padre con l'uniforme del campo, pur sapendo che è una foto per certi aspetti falsa, scattata dopo, da un fotografo professionista che disponeva di un'uniforme nuova e pulita; e che la foto, riprodotta nel libro, introdurrà un volto incongruamente umano, il volto di un giovanotto polacco fiaccato dal campo, dal tifo e dal diabete, accanto al topo-Vladek che ormai conosciamo così bene. E allo psicoanalista, Pavel, anche lui sopravvissuto ai lager, che gli ricorda come non valga la pena di scrivere un altro libro sull'Olocausto ("a che prò? la gente non è cambiata, forse ha bisogno di un Olocausto più grande"), e come del resto, secondo Samuel Bec-kett, tutti i libri siano comunque inutili, "una macchia non necessaria nel silenzio e nel nulla", Art fa notare che Beckett, in ogni caso, quelle parole le ha dette: tanto varrà dunque metterle nel libro, come puntualmente avviene. Ammirevole per l'equilibrio e la sapienza con cui inserisce tutto questo materiale furiosamente accumulato in una struttura rigorosa, perfetta anche nei passaggi acrobatici di spazio e tempo, Maus (primo e secondo) è davvero un grande romanzo ebraico ed americano, come da tempo non se ne scrivevano più. E anche, come vuole Witek, un "processo terapeutico", una forma di liberazione per la generazione cresciuta dopo la shoah? Art soffre sia quando suo padre gli parla di "Mauschwitz", sia, in modo diverso, quando lo vede discutere, al supermercato per pochi dollari e senza avere la benché minima ragione. Ma il padre, Vladek, è molto più misterioso: che cosa prova quando il figlio gli impone di raccontare? che cosa provava allora? anche lui si sente in colpa, come pensa Pavel ma come certo lui non dimostra, per essere sopravvissuto? A queste domande Spiegelman non risponde, non senza onestà: e se l'apparente happy end conclusivo, la "seconda luna di miele" fra Vladek e Anja miracolosamente ritrovatisi, viene riassunto dal disegno di una doppia pietra tombale, le ultime parole di Vladek al figlio, sul letto di morte, sono una preghiera di "spegnere registratore": "sono stanco di parlare, Richieu". A questo punto, dunque, Art è diventato per sempre il fratellino fantasma, quello a cui tante volte si è sentito sfavorevolmente paragonare: la sua fotografia, che appare in apertura, è del resto la sola immagine vera. E una dubbia "liberazione", dove cade la maschera del topQ e scopriamo che dietro, come nelle favole di magia, non c'era il volto che credevamo di conoscere: c'era, invece, quello di un altro. L'intervista di Stephen Bolhafner a Spiegelman (Art for Art's Sake) è apparsa in "The Comic Journal", n. 145, ottobre 1991; il saggio di Franco Minganti (Some Jewish-American Comics Today: un 'agenda di considerazioni intomo ai funerali di Art Spiegelman e dei fratelli friedman) fa parte di Memoria e tradizione nella cultura ebrai-co-americana, a cura di G. Fink e G. Mo-risco, Bologna 1990; quello di Joseph Witek (History and Talking Animals: Art Spiegelman's "Maus") è un capitolo di un libro dello stesso Witek, Comic Books as History: The Narrative Art of Jack Jackson, Art Spiegelman and Harvey Pekar, Mississippi University Press, 1989.