Idei libri del mese! marzo 1993 - n. 3, pag. 7 H sesto grado di Orazio di Carlo Carena < essere risolta incalzando Verga su una cronologia della quale non si curò più di tanto, dovrebbe indurli a trarre tutte le conseguenze dal fatto che la gran macchina dell'invenzione verghiana funziona sfruttando a tutti i livelli la reticenza, la parzialità e l'incompiutezza, e che in essa contano più gli effetti che i procedimenti finalizzati a ottenerli e più il retroscena virtuale che l'empiricità del dato. Perciò il meritorio puntiglio con cui cercano di risalire tutte le volte che è possibile al modello dialettale che è ricalcato dalla singola espressione verghiana, e che in alcuni casi risulta indispensabile per capirla, non deve far perdere di vista che l'effetto ricercato non era certo il riconoscimento del dialetto, ma l'immediatezza del parlato e prima ancora forse l'efficacia quasi prelinguistica di una espressività gesticolatoria. A tacer d'altro, persino la severa disciplina dell'impersonalità, come sapeva lo stesso Verga, è un gioco di prestigio. Nella stessa direzione, pur condividendo i motivi d'ordine pratico e teorico insieme che sconsigliavano una troppo stretta connessione tra il Mastro e le altre tessere del ciclo rusticano, siamo convinti che si faccia un torto all'opera verghiana trascurando di sottolineare i decisivi elementi di continuità che presiedono anche una impersonalità rinnovata come quella tanto bene illustrata da Luperini e Mazzacurati. Per esempio, polifonia e montaggio, oltre a essere ovviamente complementari, riprendono con variazioni minime una tecnica già ampiamente collaudata in precedenza. Perché "gli occhi del paese sono presenti ovunque" (Mazzacurati) soprattutto nel piccolo mondo di Trezza e in quello più grande di Vizzini costituiscono un'invenzione assai meno visionaria e provocatoria, ma sono solo normalizzati dall'esercizio esplicito della malignità e del pettegolezzo. A proposito, non vale più nel Mastro la regola generale della normalizzazione, quella regia occulta che, come quando appoggia sulla superstizione di personaggi e intermediari narrativi destini contenuti in un nome, presagi veritieri, simbologie e parallelismi, in tutta l'epopea rusticana giustifica naturalisticamente i propri margini di arbitrarietà letteraria? Se continua a valere, come crediamo, può darsi che il progresso di cui abbiamo finora parlato, e che corrispose di fatto all'inaridimento della creatività verghiana, consistesse addirittura nel passo conclusivo di una interminabile marcia di avvicinamento: quella di chi è costretto a scoprire la letteratura degli altri e il realismo, cioè la grammatica e l'ordinaria amministrazione, per via di successive approssimazioni congetturali, al culmine di un'invenzione assoluta che gli ha tra l'altro permesso di trovare il pretesto narrativo di quell'icasticità e quella crudeltà espressionistica. L'impressione che non riusciamo a dissociare dall'assoluto pessimismo delle ultime opere è quella di un Verga che ritorna inopinatamente all'ordine e alle regole alla fine di una specie di circumnavigazione della letteratura, solo per scoprire che non gli interessa più essere uno scrittore come gli altri. La rubrica "Libri di Testo" è a cu--a di Lidia De Federicis Orazio, Il libro degli Epodi, a cura di Alberto Cavarzere, Marsilio, Venezia 1992, trad. dal latino di Fernando Bandini, pp. 250, Lit 16.000. Gli Epodi di Orazio sono diciassette, in tutto 625 versi, le Odi cen-totré, i versi centinaia di più. Ma c'è da dubitare che un traduttore scelga di tradurre i primi anziché le seconde, nonostante l'impervia difficoltà della loro liscia bellezza. Opere giovanili, composti contemporaneamente alle Satire nel decennio 40-30 a.C., gli Epodi distano da noi quanto può un genere poetico nemmeno satirico ma d'invettiva, frutto di una cattiveria che poi si è risvegliata soltanto in alcuni umanisti e nel Seicento inglese; o di una rielaborazione culturale di modelli insigni, in cui solo l'antica letteratura s'impegna, quando non addirittura consiste. Pasto, dunque, pantagruelico per un commentatore. E difatti è fittissima e refe-renziatissima l'annotazione di Alberto Cavarzere a una nuova edizione degli Epodi per la collana di "Letteratura universale" Marsilio. Cavarzere insiste sulla natura giambica di questi componimenti e sulla ripresa in essi del modello ar-chilocheo, rimbalzando oltre Callimaco, pure in agguato con i propri Giambi: ma con un'operazione di pretto stampo ellenistico, se si volle rivitalizzare una traduzione più remota e peregrina. Giambi, gli Epodi, non nel senso dei ritmi e dei metri ma di un genere poetico di presa diretta e aspra, di sicura baldanza, di rapida e intensa concentrazione; creazione dei banchetti e delle brigate scorrazzanti, in cui fiorivano e si lanciavano questi motti beffardi, stimolati dalle passioni dell'amore o della politica, dal piacere e dall'esibizione dell'oltranza; non solo uno spurgo di bile ma la festosità dello scherzo, la polemica e il ritratto caricaturale, anche l'oscenità, come negli epodi 8 e 12 (che Fraenkel, a Oxford, nel 1955 giudicava "nonostante tutta la loro smerigliatura, ripugnanti"); ed anche, in una nicchia, l'amicizia e l'amore, come mostrano il primo e il quattordicesimo. Tutto ciò, nella raccolta oraziana, a diversi livelli di riuscita e in modi che spesso richiedono al nostro gusto uno sforzo di penetrazione e una lenta decantazione formale: per inseguire nel breve labirinto dei distici la dislocazione delle parole attraverso iperbati o in eleganti enjambements, l'eccitazione degli omeoteleuti e delle assonanze; per ricordare e paragonare mentalmente, nel leggere, Ipponatte o Catullo, sentirsi subito presi in Alceo con l'epodo 13 e correre a confrontarlo con la successiva, più vaga e personale ripresa oraziana dell'ode 9 del libro primo: da "Un maltempo da brividi corruccia il cielo, e piogge / e nevi fanno scendere Giove; il mare, adesso, e le selve / rombano di Aquilone il tràcico. Cogliamo a volo, amici, / in pieno giorno il momento opportuno" per bere; al Vides ut alta stet nive candidum / Soracte, nec iam sustineant onus / sii-vae, dove tutto è trasformato dalla personalità matura e dalla magia del metro. Tanto più ardua sarà una traduzione che voglia essere giustamente poetica, che colga il fascino che pur emana da questi versi complessi e oscuri, attraversati sì spesso da un acerbo furore ma anche da una sapienza poetica maturata negli studi e del proprio umore; e del resto gli Epodi erano piaciuti molto anche al Pascoli, che in Lyra ne accolse ben tredici su diciassette, per il "sorriso iambico" che guizza fra la solennità epica e la tristezza elegiaca, per i malumori che diventano scherzo, per l'alternarsi di idillio e di tragedia. Così, Bandini asseconda la lirica nell'epodo 2, lungo carme bucolico, luogo comune augusteo, virato beffardamente nei quattro versi finali, ghigno del giovane verso tutte le finzioni, della poesia come della vita. Ma dà il suo meglio appunto nell'epodo 8, con un mirabile attacco di due settenari e di un endecasillabo più settenario ("Tu domandarmi, tu! che ormai ti decomponi / nel tuo secolo d'anni, cos'è che mi affloscia le forze..."), e poi con affondi scatenati, in cui pure abbondano ritmi metrici (ai nostri tempi, c'è qualcosa di simile nella Bordel-lesca di Sandro Sinigaglia). Eppure gareggia ancora in eleganza con l'epodo 15, ferito e finto, neoclassico ed epigrammatico. Col lungo verso Bandini ne appoggia l'interpretazione elegiaca, non smentita nemmeno dal debole, quasi più rassegnato che aspro fulmen in clausula (il Cavarzere registra diligentemente in nota, come sempre, le diverse interpretazioni date dai critici al carme). Bandini ha assunto la rispondenza di linea a linea col latino (del quale non ho rintracciato l'indicazione dell'edizione utilizzata: Shackleton Bailey?); ma disperando anch'egli di racchiudere in un verso italico il compiuto contenuto semantico di un troppo esteso sena-rio e tanto più dell'esametro dattilico nei sistemi archilochei o pi-tiambici, connette più periodi metrici, ma appena può si gode puri endecasillabi per il secondo verso del distico, con armonie ed eleganze di verseggiatore consumato e di persona intelligente. Anche per questo ha trovato pane per i'suoi denti negli Epodi. Temperamento di classicista non iconoclasta ma non parruccone, rinnova il lessico tradizionale, per esprimere una sua visione personale dell'immagine poetica o farne sentire le vibrazioni. Nepos di-scinctus è "nipote ozioso" a 1.34; classicum trux "un'atroce fanfara", bove: languido collo "i buoi con allentato collo" a 2.5, 63 sg.; tibiae "oboe" a 9.5; imissensibus "fino al profondo del mio essere" a 14. 1 sg... (Ma al v. 10 del secondo epodo, l'italiano "ai tralci cresciuti delle viti / marita gli alti pioppi" sconcerta più che il latino, dove po-puli è femminile). Più ancora, l'armonia di tono e la perfetta tenuta dell'arco dei componimenti rendono di rara bellezza le traduzioni di Bandini. Componimenti in apparenza semplici, come l'undicesimo, rivelano con l'armonia e la gradazione dell'italiano la loro studiata complessità, i lievi passaggi, l'ispirazione che li regge; rivelano la bellezza delle immagini e dei versi. Così si sente bene come Orazio preparasse con gli Epodi le Odi, mentre scriveva le Satire, che son tutt'altra cosa dagli uni e dalle altre. E non è facile indicare al lettore un'altra traduzione italiana di questi carmi oggi in grado di sostenere il confronto con questa, che ci ridona una poesia negletta e un genere come pochi altri maledettamente attuale. -fi?"--] La casa editrice Paqìne indice ISH EdiZiONE Premio Letterario «SCOPRI L'AUTORE» Narratìva Poesìa Saqqìstìca Viale Mazzini, 146 -00195 Roma Tel. /Fax 3251923 Paqìne [—— Premio Italo Calvino 1992 1) L'Associazione per il premio Italo Calvino, in collaborazione con la rivista "L'Indice", bandisce per l'anno 1992 la settima edizione del premio Italo Calvino. 2) Potranno concorrere romanzi che siano opere prime inedite in lingua italiana e che non sono state premiate o segnalate ad altri concorsi. 3) Le opere devono pervenire alla segreteria del premio presso la sede dell'Associazione (c/o "L'Indice", via Madama Cristina 16, 10125 Torino) entro e non oltre il 30 maggio 1993 (fa fede la data della spedizione) in plico raccomandato, in duplice copia, dattiloscritto, ben leggibile, con indicazione del nome, cognome, indirizzo, numero di telefono e data di nascita dell'autore. Per partecipare al bando si richiede di inviare per mezzo di vaglia postale, intestato a "Associazione per il premio Italo Calvino", via Madama Cristina 16, 10125 Torino, lire 30.000, che serviranno a Ma'/: coprire le spese di segreteria del premio. Le opere inviate non saranno restituite. Per ulteriori infor- mazioni si può telefonare il sabato dalle ore 10 alle ore 12.30 al numero 011/6693934. 4) Saranno ammesse al giudizio finale della giuria quelle opere che siano state segnalate come idonee dai promotori del premio (vedi "L'Indice", settembre-ottobre 1985) oppure dal comitato di lettura scelto dall'Associazione per il P.I. C. Saranno resi pubblici i nomi degli autori e delle opere che saranno segnalate dal comitato di lettura. 5) La giuria per l'anno 1992 è composta da 5 membri, scelti dai promotori del premio. La giuria designerà l'opera vincitrice, alla quale sarà attribuito per il 1992 un premio di lire 2.000.000 (due milioni). "L'Indice" si riserva il diritto di pubblicare — in parte o integralmente — l'opera premiata. x A 6) L'esito del concorso sarà reso noto entro il febbraio del 1994 mediante un comunicato stampa e la pubblicazione su "L'Indice". 7) La partecipazione al premio comporta l'accettazione e l'osservanza di tutte le norme del presente regolamento. Il premio sì finanzia attraverso la sottoscrizione dei singoli, di enti e di società.