■■dei libri del meseH marzo 1993 - n. 3. pag. 18/11 Letterature dì lingua inglese Barbara Pym, Quartetto in autunno, La Tartaruga, Milano 1992, ed. orig. 1977, trad. dall'inglese di Frida Ballini, pp. 159, Lit 24.000. Già nel titolo di questo libro risuona un ossimorico accostamento di aspro e dolce: l'autunno, stagione incerta, preludio d'inverno in tono minore; e un quartetto che evoca l'armonico accordo di elementi affiancati, quasi a formare una cosa sola. C'è poi in copertina disegnato uno scoiattolo intento a rosicchiare una noce, sottratta appunto a quell'imminente inverno. In verità, oltre questa superficie si trova un quartetto proprio bizzarro e per nulla armonico. I quattro personaggi che Io compongono, due uomini e due donne, qualcosa in comune pure ce l'hanno: nel loro autunno anagrafico hanno tutti "superato la sessantina". Ma ciascuno vive rinchiuso nella propria idiosincrasia — intesa secondo l 'accezione britannica del termine — rinchiuso, vale a dire, nella propria peculiare stravaganza; ciascuno a suo modo radicato nella propria indipendente ostinazione e, come lo scoiattolo, disposto a rosicchiare ancora qualcosa alla vita. Solo in apparenza si tratta di un romanzo "minimalista", pronto a registrare i piccoli e semplici avvenimenti della quotidianità, perché invece niente è scontato in questo libro. Le figure presentate dall'autrice si muovono a loro agio e con intraprendenza per le strade di Londra, si incontrano e si evitano, e nella loro ritrosia ad usare le parole, per timore di essere invadenti o inopportune, sono piuttosto le loro gesta, atti di inaspettata generosità, timidi segnali di reciproca solidarietà, a dimostrare un desiderio di esplorazione di questa nuova età del pensionamento, non priva di sorprese. Carmen Concilio William Butler Yeats, Fantasmi d'infanzia e di gioventù, Theoria, Roma-Napoli 1992, ed. orig. 1916, trad. dall'inglese e cura di Aurelio Gariaz-zo, pp. 124, Lit 22.000. Nathaniel Hawthorne, La bambina di neve e altri racconti, Passigli, Firenze 1992, trad. dall'inglese dì Renata Barocas, pp. 74, Lit 8.500. Una discussione sulla creazione artistica come espressione di energia vitale sembra essere il nucleo tematico attorno al quale ruotano i primi tre racconti di questa breve raccolta. E grazie all'ingenuità fiduciosa e creativa dei piccoli protagonisti della prima storia, La bambina di neve, che il loro pupazzo di neve prende le forme e le movenze di quella che diviene la loro ideale compagna di giochi. Così come la meticolosità ossessiva dell'orologiaio Owen, in L'artista del bello, riesce a generare un altro sublime oggetto dalla simbologia evidente: una farfalla. Poco importa se l'incomprensione del mondo circostante vanifica gli sforzi delle "anime belle". Poco importa se il corpicino di neve della bambina bianca svanisce davanti al calore soffocante e fuori luogo di una stufa, o il fragile volo della farfalla viene stroncato dalle mani violente del figlio di un fabbro. Quello che conta è il processo creativo, "Ben altra farfalla egli aveva preso. Quando l'artista si elevò così in alto da attuare il bello... il suo spirito possedette se stesso nel godimento della realtà". In questi racconti Hawthorne sembra preferire al simbolo il momento "epifanico", l'attimo di consapevolezza, che può risiedere nello splendore lucente della neve, nel volo effimero della farfalla o, come in Gli sposi dell'Eternità, nell'indissolubile intreccio di vita e morte che è la realtà stessa. È certo che il mondo prosaico di osservatori scettici che popola le quattro vicende resta escluso da questi momenti magici cui sono invitati a partecipare soltanto bambini, eccentrici artisti e — chissà — forse anche noi lettori. Claudia Manera Jamaica Kincaid, Lucy, Guanda, Parma 1992, ed. orig. 1990, trad. dall'inglese di Andrea Di Gregorio, pp. 148, Lit 22.000. C'è qualcosa di strano nell'autobiografia di Yeats: una sorta di pacato distacco, un prendere le distanze dagli eventi narrati, un tono a mezza via tra derisione e indulgenza. Lo iato che si percepisce è in parte conseguenza della distanza cronologica che separa il momento della stesura dell'opera dagli accadimenti. Il poeta è infatti ormai cinquantenne quando si appresta a riordinare e fissare sulla pagina i barlumi del passato. Sarà dunque questo il libro di cui si legge in una lirica del poeta? Il libro che il vecchio, canuto e stanco, sceglierà da uno scaffale con lenti gesti, per leggervi del fiero sguardo che un tempo animava i suoi occhi e per ritrovarvi i volti di coloro che amarono il suo spirito errabondo? Non l'urgere dei ricordi ridona memoria all'uomo ma- Povera "visitor" e Lucy sono significativamente i capitoli iniziale e finale, i poli estremi, di una narrazione che segue il percorso formativo della giovane protagonista, venuta dai Ca-raibi nel paese delle illimitate possibilità: gli Stati Uniti. L'inverno, sconosciuto ai tropici, è il primo estraneo a dare il benvenuto alla diciannovenne ospite, a questa aliena, che inizialmente si limita a prendere nota del mondo esterno visto attraverso i finestrini di un'auto o dalla finestra della stanza che la ospita. Anche la primavera, con l'annuale esplosione di narcisi che porta con sé, lascia indifferente la nuova venuta che durante l'infanzia ha interiorizzato paesaggi diversi, ora continuamente posti a confronto con la realtà attuale. Non solo il mutare delle stagioni colpisce la narratrice che osserva piuttosto gli altri: gli uomini e le donne e attraverso queste ultime se stessa. Il punto di vista privilegiato che l'osservatrice detiene in quanto straniera le permette un lucido distacco da tutto quanto la circondi. Così assiste al dramma di Mariah, presso cui lavora come baby-sitter, che perde con il marito e la sua migliore amica la felicità coniugale. Allo stesso modo, la distanza che la separa da casa le consente di recidere quel residuo cordone ombelicale che la legava a sua madre, fatto di lettere cui Lucy non dà risposta. Perché ormai Lucy ha ripreso coscienza dello spirito ribelle, luciferino, rinchiuso nel suo nome; ha una casa da considerare propria, con tendine "a grossi fiori vistosi" che ricordano i Caraibi; ha una solitudine piena di amicizie e amori da raccontare in una scrittura agile, in una prosa scorrevole e accattivante, sempre dominata dal temperamento fiero — che deve appartenere a Jamaica Kincaid, brillante attrice americana, ma d'origine caraibica — di una ventenne che cammina "cercando di tenere alta la testa e di osservare ogni cosa". Carmen Concilio Arthur Maimane, Vittime, Edizioni Lavoro, Roma 1992, ed. orig. 1976, turo, bensì un impedimento, quasi uno smarrimento, di fronte alla possibilità di dimenticare. Ecco allora l'emergere di rèveries, visioni o fantasmi come suggerisce correttamente la traduzione, di discorsi frammentari, ma soprattutto dell'Irlanda. Qu^la dei mai i burrascosi che nascóndono di volta in volta scogliere insidiose oppure mitiche. Quella di strani figuri incontrati per via, di fuochi che divampano sui monti incantati. Quella della saggezza e delle superstizioni popolari; quella, infine, divisa tra orangisti e feniani. Un quadro d'ambiente, insomma, e insieme un ritratto di famiglia, ma anche la storia di una vita che — dice il poeta — "soppesata nella bilancia della mia mi sembra una preparazione a qualcosa che non accade mai". Carmen Concilio trad. dall'inglese di Carlo Corsi, pp. 310, Lit 28.000. Una separazione coatta porta fatalmente anche a un incontro coatto: un atto di violenza, uno stupro. Nel violentare la giovane e bella donna bianca, Philipp ha voluto colpire "tre milioni di bianchi"; in realtà, questa vendetta non fa che gravare il carnefice di un peso tale da renderlo a sua volta vittima, non meno di quanto lo sia Jean Ryan. E non sarà un qualche senso di colpa a redimere Philipp, quanto invece il tormentato percorso che lo riavvicinerà ai bianchi. Con una tecnica che Itala Vivan nell'introduzione definisce "cinematografica", Maimane segue alternativamente le vicende dei due protagonisti e, allo stesso tempo, tratteggia con essenzialità i loro diversi mondi. Il mondo dei neri, dei locali dove si suona jazz e dei sobborghi. A tutti gli intellettuali neri, riunitisi negli anni cinquanta intorno alla rivista "Drum", è dedicato questo che Mai-mane definisce il "Grande Romanzo Sudafricano", quello che più volte essi avevano promesso di scrivere quando partecipavano alle feste "miste" dei bianchi. E nelle case dei quartieri residenziali si sposta quindi l'attenzione per seguire la fiera Jean Ryan, costretta ad abbandonare la sua gente perché ha scelto di tenere con sé la figlia di quella violenza. Alle umilianti prove che Jean si trova ad affrontare si affiancano le sorprendenti iniziative di Philipp che proprio in seguito a una di quelle feste "miste" vede pian piano andare in pezzi il rancore provato verso i bianchi. Il finale conciliatorio, che porta i due protagonisti a un nuovo incontro, non cancella né l'onta subita da Jean, né ciò che l'ha causata, l'apartheid-, ma, soprattutto, non contiene alcuna morale. La morale della favola è invece affidata all'epigrafe del libro, alle parole del Prometeo di Shelley e alla sua infelice condanna a dover meglio comprendere un atto che voleva essere di sfida. Carmen Concilio Janet Frame, La città degli specchi, Interno Giallo, Milano 1992, ed. orig. 1985, trad. dall'inglese di Lila Zazo, pp. 191, Lit 25.000. Colui che più viaggia molte cose avrà da raccontare — ricorda un proverbio tedesco —; e nell'immaginario collettivo il narratore è spesso qualcuno venuto da molto lontano — aggiunge W. Benjamin nelle Illuminazioni. E di un viaggio racconta anche l'ultimo volume dell'autobiografia di Janet Frame, che dalla Nuova Zelanda è venuta in Europa e vagando da Londra alla Spagna, nelle città del secondo dopoguerra, ha conosciuto una pover-I tà non meno dignitosa di quella lasciatasi alle spalle. Ma al racconto di viaggio inteso come attraversamento di spa- zi geografici si sovrappone il motivo del viaggio interiore, alla ricerca di una nuova o della vera identità. Quando i medici di Londra confermano l'errore nella diagnosi di schizofrenia sentenziata dai colleghi neozelandesi, Janet sa di aver trovato se stessa, eppure, allo stesso tempo, sente di aver perduto qualcosa: un 'aura di folle genialità che la legava impercettìbilmente a Van Gogh o a Hugo Wolf. Non l'ha però invece abbandonata quella sua caratteristica "solitudine interiore dell'anima", che le consente di vivere il proprio ' 'esilio ' ' nella Città degli Specchi, una città che non ha alcuna collocazione spaziale se non nell'immaginazione. Nella coincidenza di vita e scrittura di cui si nutre l'autobiografia vi è un momento in cui il cerchio si chiude. Il rotolare "senza mai fermarsi a riposare o a mettere radici" del solitario tumbleweed — quel ' 'gomitolo di erba secca, racchiuso nelle proprie radici", trasportato dai venti autunnali, con il quale Janet si era identificata — ha alfine termine. Il viaggio e con esso il racconto si concludono là dove avevano avuto inizio: a Dunedin, in Nuova Zelanda. Qui l'Inviato, angelo o messaggero, attende impaziente sulla soglia; ma il j fluire della narrazione non sembra trovar pace: "Lasciami scrivere ancora di viaggi ' ' — lamenta Janet, che ormai ha ritrovato la propria dimora nella scrittura, nell'immaginazione, ma anche, letteralmente, a casa. Carmen Concilio Natiianiei. Hawthorne, La casa del tesoro, Selleria, Palermo 1992, ed. orig. 1942, trad. dall'inglese di Eugenio Montale, pp. 47, Lit 10.000. Attraverso un alternarsi di passato e presente, di sogno e realtà, di immagini più o meno sfocate, si sviluppa la delicata storia di Peter Goldth-waite. Come spesso nella short story classica, il protagonista è un individuo in qualche modo eccentrico, ai margini della società, della folla sorridente che egli qui osserva da una finestra della sua casa in demolizione. Come spesso in Hawthorne, è il simbolo a farla da padrone, dove il magico diventa introspezione, dove la demolizione dell'abitazione di Peter, che consente però di "lasciare inalterato l'esterno guscio... in modo che i passanti non potessero sospettare ciò che accadeva dentro", diviene emblema del conflitto tra interiorità ed esteriorità. Scettico nei confronti dell'ottimismo metafisico che permea il pensiero estetico e filosofico dei suoi contemporanei — primo fra tutti Emerson —, Hawthorne sottopone a critica anche il mitico sogno americano di rinnovamento, sogno che qui Peter sembra concretizzare nella ricerca spasmodica del "tesoro" e nella progressiva demolizione della vecchia casa in prospettiva di una ricostruzione. La proiezione nel futuro non è tuttavia possibile senza l'incontro-scontro con i fantasmi del passato, ed ecco che quindi Peter, nel suo distruttivo vagabondare tra i relitti della soffitta, confonde la propria identità con quella dell'omonimo antenato e le diavolerie di quest'ultimo sembrano fornirgli una chiave d'interpretazione. Ma non finiscono certamente qui le occasioni di cimentarsi nella decodificazione di simboli e allusioni, oltre che semplicemente assaporare il tono pacato del racconto. Non manca, in conclusione, anche un riferimento sfocato al mondo degli affari: un nuovo sbocco per la realizzazione concreta del sogno d'intraprendenza e rinnovamento? Claudia Manera T BRUNO FABI IL TERZO MILLENNIO Romanzo, pp. 216, L. 28.000 La chimera dell'Apocalisse alla vigilia dell'anno Mille, e ora all'alba del terzo Millennio, nella ricorrenza biblica degli eventi e nel racconto di due vicende umane, in terra di Toscana, parallele nel tempo. TODARIANA EDITRICE MILANO 20135 Milano Via Lazzaro Papi, 15