marzo 1993 - n. 3. pag. 12 La città rovesciata di Manfredo Tafuri gli studiosi nostrani sembrano infatti concordare sulla necessità di un letargo. La caccia ai casi marginali ricchi di inediti, la catalogazione (spesso inesperta), l'agiografia e l'ermetismo — nel caso dell'architettura contemporanea — l'ottusità disciplinare (o, al contrario, l'interpretazione selvaggia) hanno creato un clima soffocante da cui gli studiosi degni di questo nome sono obbligati a difendersi quotidianamente. Ed è probabile che il libro di Ac- kerman corra il pericolo di essere sottovalutato, o di non essere colto nel suo valore provocatorio dah dilettantismo imperante. Le ipotesi di fondo sono esplicitate dall'autore sin dal primo capitolo (La tipologia della villa). Da un lato, egli constata che nessun altro tema edilizio è stato tanto ideologizzato e circondato da celebrazioni poetiche e letterarie; dall'altro, egli osserva che è proprio della villa un programma capace di sfidare il tempo. Il che — egli afferma — è dovuto a una mentalità operante già nell'antico patriziato romano: la villa asseconda bisogni e valori inesaudibili, rivelandosi frutto di una tensione in qualche modo utopica. Ma è anche un simulacro che cela in James S. Ackerman, La villa. Forma e ideologia, Einaudi, Torino 1992, ed. orig. 1990, trad. dall'inglese di Piera Giovanna Tordella, pp. 398, 206 foto n.t., Lit 55.000. Come talvolta accade alla produzione dei grandi storici, anche la successione dei libri di James S. Ackerman si presenta come lo sviluppo di un pensiero unitario: quasi capitoli di un romanzo autobiografico, le cui svolte coincidono con quelle della vita intellettuale e personale del suo autore. Il quale, sin dall'opera che lo ha imposto all'attenzione degli specialisti — il volume sul cortile bramantesco del Belvedere (1954) —, è stato considerato un innovatore nel campo della storiografia architettonica. L'interazione fra critica delle fonti, analisi testuale e lettura diretta appariva inedita e feconda: un metodo che ha condotto Ackerman, attraverso le monografie su Michelangelo architetto e Palladio (tradotte da Einaudi, rispettivamente, nel 1968 e nel 1972), a essere internazionalmente considerato un maestro da più generazioni di studiosi dell'arte e dell'architettura del tardo medioevo e del Rinascimento. Tipica della sua ricerca è la fusione dell'empirismo anglosassone con la severa tradizione filologica tedesca e il "costruttivismo" storiografico europeo: gli storici futuri potranno forse valutare quanto, nell'interesse dello studioso per l'Umanesimo italiano, abbia giocato il suo primo incontro con la realtà della nostra penisola, avvenuto — per lui, nato a San Francisco nel 1919 — come membro dell'esercito americano durante il secondo conflitto mondiale. Spunto, quest'ultimo, che potrebbe apparire secondario; eppure, esso potrebbe essere messo in parallelo con le frustrate attese di Jacob Burckhardt nei confronti degli ideali del Risorgimento italiano, sapientemente ricostruite di recente da Raffaele Ghelardi (La scoperta del Rinascimento, Einaudi, 1991). Pertanto, la traduzione del recente libro dello studioso americano, edito da Einaudi con l'icastico titolo La villa, va salutata come un felice evento1. Specie tenendo conto che è prossima anche la traduzione del ponderoso volume antologico dello stesso Ackerman, che raccoglie, con l'ironico titolo Distance Points, la maggior parte della sua produzione saggistica (ed. orig. Mit Press, 1991). La vicenda narrata in La villa è una vera e propria storia di longue durée. Il debito nei confronti della scuola delle "Annales" — di Marc Bloch e Fernand Braudel, in particolare — è riconosciuto sin dal primo capitolo (p. 16). E proprio in quanto narrazione tesa a individuare costanti, discontinuità, strutture, la storia tracciata dall'autore evita inutili completezze. I frammenti prescelti rispondono agli interrogativi che da tempo si impongono all'attenzione di Ackerman. Alle origini del presente lavoro sono infatti i suoi saggi sulle Sources of the Renaissance Villa (1963), sulle ville di Andrea Palladio (New York 1967), sulla villa medicea LAyS0 PUBBLICO DELL'INTERESSE PRIVATO sé un sostanziale conservatorismo. Dalla sesta Satira del libro II di Orazio alla Vita solitaria di Francesco Petrarca, agli scritti cinquecenteschi di Anton Francesco Doni, Antonio Gallo, Giuseppe Falcone e Alberto Lollio, alle scelte antiurbane di Jefferson, alle revisioni ottocentesche, la vita in villa è salutata come rifugio etico, alternativo al "male urbano". La virtus, identificata con l'isolamento salutifero e aristocratico nella madre natura, è contrapposta agli odii, ai teatri di miseria, alla depravazione morale, ali'avaritia dissacrante, che pervadono la città dei negotia. Ma la pace degli otia è tutt'altro che condizione di riposo. Ad essa è affidato l'arduo compito di sviluppare Vhu- Frontiere Idee di fine secolo Charles Schultze di Fiesole, sull'attività architettoni ca di Thomas Jefferson ("Bollettino del Centro A. Palladio", VI, 1964). In altre parole, il lungo periodo trattato dall'autore — dall'antichità ai giorni nostri — è ben fondato, tanto da far apparire progettate le omissioni: che rendono, fra l'altro, perfettamente fruibile il volume. Il quale, già per le sue caratteristiche di sintesi di ampio respiro, costituisce una lezione nei confronti del clima stagnante che pervade — con poche eccezioni — la storiografia architettonica italiana. All'insegna della mediocrità, Introduzione di Giorgio La Malfa E possibile determinare nuovi assetti tra economia e politica ? Michel Korinman LA GERMANIA VISTA DAGLI ALTRI Chi ha paura della «grande Germania»? Guerini e Associati manitas attraverso il severo autocontrollo intellettuale, in vista di un'autorealizzazione antistoica. E le ville concepite come luoghi di esemplare conduzione dell'amministrazione agricola e familiare — ci riferiamo all'idealizzazione di Leon Battista Alberti — o, alternativamente, come centri di raffinati scambi culturali — quelle medicee di Careggi o di Fiesole — portano al limite le indicazioni petrarchesche. L'autentica caratteristica della villa è tuttavia quella di costituire una sintomatica contraddizione. I programmi letterari — spesso tradotti in immagini dipinte all'interno degli edifici — non riescono a convincere circa la totale sincerità di tali fondamenti idealizzati. Ciò che essi non possono nascondere è la stretta complementarietà dell'edificio di villa con 1" 'innaturale" città. In tal senso, la prima illustrazione del libro di Ackerman — il calco di un rilievo romano proveniente da Avezzano, .raffi- Igurante una villa suburbana prossima ad una città murata — è quanto mai espressiva. L'alternativa al "luogo d'ira" identificato con l'ambiente urbano si rivela frutto di una concezione eminentemente cittadina; l'estetica del "naturale", che pervade l'Inghilterra settecentesca, non è scindibile dall'etica aristocratica del ceto whig che se ne appropria. Ackerman dimostra che l'ideologia degli otia bucolici è meglio comprensibile prendendo in considerazione le feroci critiche che essa solleva in chi vede nella villa, principalmente o esclusivamente, una "virtuosa" azienda agricola. Il diarista veneziano Girolamo Priuli constata, in modo melanconico e sprezzante, l'allontanarsi del patriziato della Serenissima — nei primi decenni del XVI secolo — dalle imprese marittime, "per atendere a darsi a piacere et delectatione et verdure in la terraferma". Il che ha un significato parallelo nella letteratura antica. Varrone, nel suo De re rustica (I.XIII.6-7), rimpiange i tempi in cui le fattorie erano adibite esclusivamente a funzioni produttive, secondo una concezione comune a Catone e a Velleio Patercolo. Gli strali lanciati al lusso, all'architettura fastosa, ai banchetti, ai dispositivi idraulici che animano i giardini delle "nuove ville", esplicitano un radicale conflitto di idee. La vita di villa è vista come "innaturale", a dispetto degli appelli all'informalità e alla sancta simplicitas che la giustificano: tale è il punto di vista degli agronomi antichi che registrano, con rabbia, la devastazione delle campagne e delle aziende a conduzione familiare, conseguenti alle trasformazioni economiche posteriori alle guerre puniche. Così, il mito di un possibile ritorno ai severi piaceri rustici propri dall'età dell'oro è contestato da Pater-colo, ricordando gli artificia prediletti da Lucullo, eletto a simbolo di depravazione morale. Esattamente quel Lucullo che, "per le dighe ad-dentrantesi nel mare, e per le acque marine portate in terraferma attraverso gallerie, Pompeo Magno, non senza arguzia, Xerxen togatum vocare adsueverat" (Velleius Paterculus, Res gestae Divi Augusti, II. XXIII. 4). Forzando di poco le opinioni di Ackerman, si potrebbe affermare che la storia da lui trattata ha per soggetto la straordinaria continuità di una dissimulazione mentale, coinvolgente in profondità i suoi protagonisti. Infatti, lo storico americano dà poco credito alle dichiarazioni tramandate dai Quattro Libri palladiani relative alla ricerca di una sintesi di funzionalità agricola e velleità rappresentative. Un tale sincretismo — egli suppone (p. 142) — poteva ormai essere perseguito soltanto (o prevalentemente) a livello simbolico, così come è evidente nella villa dei fratelli Barbaro a Maser o nella Rotonda di Paolo Almerico presso Vicenza. E per quanto l'autore non insista sul parallelo storiografico, dalle sue pagine è facile evincere la corrispondenza istituita fra espropri e centralizzazioni delle terre in età augustea e gli effetti delle enclosures nella Gran Bretagna del XVIII e del XIX secolo. Un fenomeno, quest'ultimo, che accompagna il fiorire dello pseudopalladianesimo favorito dal circolo di Lord Burlington e dell'estetica paesaggistica definita "artinatural" da Batty Langley. In fondo, la psicologia lockiana e l'al-legorizzazione del giardino propugnata da Alexander Pope, da William Kent o da Lord Cobham, portano alle loro estreme conseguenze sia il mito naturalistico che quello della "artificiosa semplicità". Il ragionamento torna a sondare il carattere di alter ego della villa nei confronti della città. Un fenomeno che non è affatto contestato dalle vicende lette da Ackerman come frutto di una vera e propria rivoluzione nella storia della villa: la "democratizza- >