Filosofia Georges Canguilhem, Ideologia e razionalità nella storia delle scienze della vita, ed. orig. 1988, trad. dal francese di Paola Jervis, La Nuova Italia, Firenze 1992, pp. 148, Lit25.000. Georges Canguilhem, successore di Gaston Bachelard nella cattedra di storia e filosofia delle scienze alla Sorbona, è il capostipite di quella epistemologia storica che lo ha reso uno dei massimi esponenti del dibattito epistemologico del Novecento. Questo libro è una raccolta di saggi, scritti a cavallo tra il 1969 e il 1977, nei quali la ricerca di Canguilhem si muove tra analisi storiografica e interpretazione filosofica. Punto di partenza è la contrapposizione tra una storia delle scienze, intesa come semplice esposizione cronologica di avvenimenti, e un'indagine che al contrario non legga la scienza come continuità determinata, ma come un insieme di "rotture", di rettifiche critiche di fronte alle quali lo storico è "necessariamente uno storiografo della verità", secondo la migliore tradizione del pensiero bachelardia-no. In questa chiave, Canguilhem penetra nel territorio delle scienze della vita, approfondendo concetti come quello di regolazione biologica o di normalità e analizzando l'influenza di nuovi modelli come ad esempio la teoria medica di John Brown o le ripercussioni sulla biologia della teoria darwiniana. Canguilhem si sofferma anche sulla nozione di "ideologia scientifica" e sul suo inevitabile intreccio con la scienza. Una nozione che, secondo l'autore, una storia delle scienze non può ignorare senza ottenere un quadro dove mancano "ombre e rilievi". Annalina Ferrante Rudolf Arnheim, Pensieri sull'educazione artistica, a cura di Lucia Pizzo Russo, Aesthetica, Palermo 1992, ■ dei libri del mesel marzo 1993 - n. 3, pag. 22/vi ed. orig. 1989, pp. 112, Lit 20.000. Attualmente la formazione scolastica trascura di norma l'educazione artistica. Ma questo fatto rivela un problema ben più grave: la separazione del senso dal pensiero e la conseguente supremazia accordata all'intelletto nei confronti della sensibilità. L'arte deve invece essere considerata la forma primaria di orientamento nel mondo, un'attività specifica e insostituibile, dotata di un linguaggio proprio capace di riprodurre in sé la dinamica di quelle forze che plasmano la vita umana in genere. L'arte offre cosi un simbolo visivo dell'esperienza della realtà, un accesso facilitato al significato della nostra esistenza, rivendicando così il suo ruolo centrale nella formazione del pensiero produttivo. Tale nuova funzione dell'arte come strumento del pensiero comporta una complessiva revisione di ogni progetto educativo. Per questo motivo l'eposizione teorica si accompagna sempre a esempi chiarificatori e a osservazioni sulla concreta applicazione nell'insegnamento. Paolo Euron Giancarlo Carabelli, Intorno a Hume, Il Saggiatore, Milano 1992, pp. 212, Lit 48.000. Il volume di Carabelli raccoglie una serie di riflessioni non sul filosofo scozzese, ma, come dice il titolo, intorno a lui: il Settecento, l'illuminismo, l'empirismo e i giardini inglesi. La filosofia del Settecento che non è più conventuale e non ancora accademica, ma dei salotti, dei caffè e delle librerie, è ciò che motiva il registro di questo lavoro: brillante, letterariamente colto, allusivo, witty, e tuttavia preciso e mai futile. L'approccio filosofico è poi scelto in base alla convinzione dell'autore che la Teoria vada affrontata e prodotta per circumnavigazione, anziché per presa diretta. La preferenza per una filosofia che si svolge da riflessioni su osservazioni e accadimenti quotidiani e modesti, come per esempio il giudizio sul vino, per toccare questioni filosofiche ardue come la natura del giudizio e del gusto, identifica di nuovo Carabelli con il suo oggetto di studio, la filosofia dei lumi che, com'è noto, ha preferito l'esprit de finesse ali 'esprit de système. La questione filosofica che risulta al centro delle eleganti riflessioni dei tre saggi che compongono il volume è quella della medietà come norma sia del giudizio estetico e morale che dello stile di vita e dei codici di comportamento; tema che l'illuminismo attinge da un'illustre tradizione classica, ma che qui tuttavia, nella ricostruzione proposta da Carabelli, è presentato senza quell'alone di noia, perbenismo e moralità convenzionale cui è comunemente associata, bensì negli aspetti più propriamente percettivi, come equilibrio riflessivo fra percezioni contrastanti. Anna Elisabetta Galeotti Daniel C. Dennett, Contenuto e coscienza, Il Mulino, Bologna 1992, ed. orig. 1969, trad. dall'inglese di Giulietta Pacini Mugnai, pp. 250, Lit 30.000. Daniel Dennett è uno dei principali artefici dell'analogia tra la mente e il computer — il modello computazionale della mente, che istituisce un paragone tra i processi mentali e le operazioni svolte da un calcolatore — e in Contenuto e coscienza osserviamo i primi passi (il testo è del "lontano" 1969, pur contenendo una breve premessa del 1985) di un programma di ricerca che mira a sviluppare questa analogia nel contesto di un approccio evoluzionistico. Dennett imposta il problema nei termini della riduzione del vocabolario ' 'mentale ' ' a quello ' fisico ' ' e prende le distanze tanto dal comportamentismo quanto dalle teorie (materialiste) dell'identità tra stati mentali e stati cerebrali. Per Dennett il discorso mentale è dotato di un suo proprio significato, ma questo non implica che esistano entità mentali contrapposte a quelle fisiche: i sistemi intenzionali sono sistemi fisici e l'alternativa tra materialismo riduzionistico e dualismo cartesiano tra mente e corpo è mal posta. Credenze e desideri sono stati intemi che attribuiamo per spiegare il comportamento, strumenti predittivi e non entità. In altri termini, per Dennett, la componente intenzionale della mente deriva da un 'attività di proiezione e interpretazione, essenziale, ma priva di un valore ontologico: credenze, desideri, e altri stati intenzionali non fanno parte della "struttura del mondo", ma "descrivono in modo diverso" gli eventi fisici e fisiologici che costituiscono quei "sistemi di controllo del comportamento umano e animale", che ontologicamente non sono altro che "cittadini molto complicati dell'universo fisico" (pp. 110 e 111). Questo programma verrà ulteriormente elaborato e modificato, ma, come spesso accade, le prime formulazioni di un 'idea permettono di coglierla con maggiore chiarezza e in questo senso Contenuto è coscienza rappresenta ancora oggi un 'utile lettura. Michele Di Francesco Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana, Tea, Milano 1992, pp. 456, Lit 19.000. Se l'insegnamento della filosofia verrà introdotto in tutte le scuole superiori, e se saranno accettate le 1/ Magnifico oggi pp. XLlX, 200 - L. 50.000 Presentazione di Luigi Pareyson 11 fallimento di una cultura che ha inteso la ragione solo come funzionalità operativa trasformatrice e organizzatrice della realtà, sottratta al suo vincolo con la verità dell'essere. La follia di una politica che non ha come principio e fine la giustizia ma la sete di potere. L'incapacità dell'Occidente di intendere la portata e l'urgenza della richiesta di giustizia e libertà degli altri popoli della Terra, protagonisti nella civiltà nuova che sorgerà dalle ceneri della nostra. Platone pp. 708 - L. 100.000 Una delle più intense e affascinanti monografie su Platone, che, in queste pagine, torna liberamente platonico di contro a tutte le accademie e di là dalla autorità della sua stessa fortuna storica. L'EPOS PALERMO tel. 091/6113191 fax 091/581960 istanze di un'educazione genuinamente interculturale, sarà opportuno che il pensiero orientale, in particolare indiano, occupi finalmente nei manuali e nelle opere di storia della filosofia il,,posto che gli compete. Nell'attesa^ la Tea ripropone la deliziosa summa che Tucci pubblicò una prima volta per i tipi di Laterza nel 1957, e poi, con qualche rimaneggiamento, ancora presso Laterza nel 1977. Benché dal '57 a oggi in India molte antiche opere filosofiche siano state ritrovate in forma manoscritta e pubblicate, benché la letteratura secondaria si stia sempre più arricchendo di studi fondamentali, l'opera di Tucci conserva una straordinaria, sorprendente vitalità. Qual è il suo segreto? Innanzitutto la conoscenza diretta delle fonti. Non si può scrivere di filosofia buddhista se non si legge, oltre al sanscrito, anche il pàli, il tibetano e il cinese, perché di molte opere indiane si è perduto l'originale e si conservano solo le traduzioni. E Tucci fu uno dei pochissimi orientalisti a padroneggiare lingue così diverse. In secondo luogo, la chiarezza e la razionalità dell'esposizione. A una prima parte, che espone le dottrine delle varie scuole, seguono alcuni capitoli consacrati alle questioni più dibattute dagli antichi indiani: dal problema gnoseologico a quello etico e a quello cosmologico, fino alla filosofia del linguaggio e all'estetica. In terzo luogo, l'esperienza diretta dei luoghi e delle genti orientali, che evita il pericolo di un'erudizione libresca. Antonella Comba Madame du Chàtelet, Discorso sulla felicità, a cura di Maria Cristina Leuzzi, con una nota di Giuseppe Sca-raffia, Sellerio, Palermo 1992, pp. 114. Lit 10.000. Questo breve trattato sulla felicità della celebre Madame du Chàtelet, amante di Voltaire, studiosa e traduttrice di Newton, appassionata di matematica e scienze, è interessante da due diversi pùnti di vista. Innanzitutto come esempio tra i più significativi della legittimazione del piacere e della felicità terreni tipica della corrente eudaimonistica dell'epoca. In secondo luogo, in quanto confessione originale dell'autrice, come testimonianza di un'eccezionale personalità femminile, capace di coniugare le dolcezze dell'amore più appassionato con una rigorosa e altrettanto coinvolgente passione per lo studio. La passione per lo studio diviene anzi il piacere supremo e più stabile, raccomandato specialmente alle donne per il grande potere consolatorio che possiede nel momento in cui le gioie dell'amore declinano. L'idea che sia possibile programmare razionalmente la propria felicità mediante la conoscenza e l'accettazione di sé e la previsione degli eventi domina lo scritto della Chàtelet: la maggior parte dei mali degli uomini deriva infatti dal non saper adeguare la propria vita alle proprie possibilità fisiche e mentali. Tuttavia, l'estremo razionalismo che informa la sua ricerca della felicità non le impedisce di dare un grande valore all'illusione — come faranno poi i più sensibili tra i philosophes, ad esempio Diderot —, senza la quale la vita sarebbe di un'aridità insostenibile: Marina Sozzi Johann Joachim Winckelmann, Pensieri sull'imitazione, Aesthetica, Palermo 1992, ed. orig. 1755, trad. dal tedesco di Michele Cometa, pp. 168. Lit 30.000. L'oscuro bibliotecario J. J. Winckelmann raggiunse d'improvviso la notorietà nel 1755, pubblicando quest'opera a proprie spese, in appena cinquanta esemplari. In poche quanto decisive pagine vengono for- mulati i capisaldi dell'estetica neoclassica: la concezione della Grecia come patria del gusto artistico e quindi l'esortazione a imitare la perfezione della scultura classica. In essa, infatti, vi troviamo la bellezza della natura, ma "concentrata", condotta a un tale grado di perfezione che in natura sarebbe difficile trovare. Tuttavia la "nobile semplicità" e la "quieta grandezza" dei capolavori greci non presentano semplicemente una valenza estetica: il popolo greco esprimeva nelle opere d'arte l'irripetibile bellezza del proprio corpo e la propria armonia interiore. Le opere dell'antichità esprimono allora un ideale esistenziale prima ancora che artistico, la conseguenza necessaria dell'armonia e della misura che pervadeva l'anima umana, una condizione ormai perduta e che, nella modernità, solo gli artisti possono restaurare. Segue ai Pensieri il Commento ai medesimi dello stesso Winckelmann, pubblicato nella seconda edizione del 1756. I testi sono accompagnati da un notevole apparato critico-in-terpretativo e da un'ampia bibliografia a cura di Michele Cometa. Paolo Euron Jacques Derrida, Il problema della genesi nella filosofia di Hussert, Jaca Book, Milano 1992, ed. orig. 1990, trad. dal francese di Vincenzo Costa, pp. 291, Lit 47.000. Rimasto inedito fino al 1990, il libro costituisce, in realtà, la tesi per il diploma di studi superiori del filosofo francese. E un lavoro, dunque, che risale al periodo (1953-54) in cui Derrida frequentava il secondo anno ali 'Ecole normale supérieure. Il libro è utile non solo per comprendere le motivazioni filosofiche iniziali di Derrida, ma anche perché in esso viene chiaramente tematizzato il rapporto del filosofo francese con la fenomenologia trascendentale. Co- struita su una "complicazione originaria dell'origine", sull'aporia di un fondamento sintetico a priori, la fenomenologia di Husserl, secondo Derrida, non potrà mai pervenire all'immediata oggettività delle essenze. Infatti, se il problema della fenomenologia è quello di conferire geneticamente un senso originario all'esperienza la "genesi del senso", che è sempre a priori, è inevitabilmente destinata a convertirsi sempre in un "senso della genesi". Fondata su questa sorta di equivoco trascendentale del senso dell'origine, la fenomenologia non farebbe altro che proseguire l'erronea pretesa della metafisica occidentale di poter risalire al "tempio dove si svelano tutti i misteri". Come si può accedere all'evidenza eidetica se la genesi che costituisce il senso è, simultaneamente, "anteriore al senso", affinché la costituzione sia effettiva e "posteriore al senso perché questo ci sia dato in un'evidenza a priori od originaria"? Giuseppe Cantarano