Idei libri del mese! giugno 1993 - n. 6, pag. 9 Daniello bartoli, La ricreazione del savio, a cura di Bice Mortara Garavelli, premessa di Maria Corti, Fondazione Pietro Bembo, Guanda, Parma 1992, pp. LXXI-708, Lit 65.000. "Già ho cominciata la seconda parte dell'Istoria, e sto in un mare di scritture, che mi consumano il tempo e il cervello. Se ciò non fosse, metterei il pensiero a lavorar qualche altro di questi miei libretti, de' quali, a volerLe scrivere i titoli, avrei a fare una litania", scrive il Bartoli nel 1653. Infatti la "ben increscevol fatica" a cui accenna nella Ricreazione, della monumentale Istoria della Compagnia di Gesù che lo teneva "inchiodato in Roma" dal 1648 (e a cui si dedicherà fino alla morte nel 1685), doveva di necessità limitare il tempo che lo scrittore poteva dedicare agli studi più amati e congeniali e ostacolare la stesura di opere già definite nel soggetto e nelle linee di svolgimento. Le opere di edificazione morale, gli studi grammaticali e i trattati scientifici dell'ultimo periodo sono dunque frutto di una passione sottratta all'oneroso impegno di storiografo ufficiale. Sono opere estratte da un prodigioso archivio della memoria in cui il Bartoli ordinava e selezionava, riuniva per argomenti ed esempi, florilegi di citazioni, l'immenso patrimonio della sua cultura e della sua erudizione storica e dottrinale, letteraria e filosofica, scientifica e geografica. L'assiduo studio e la lunga consuetudine con i prediletti autori classici e cristiani, compongono la "viva libreria" di "morti libri" della sua memoria, l'enciclopedico schedario di materiali già predisposti a costituire la trama argomentativa e il corredo espositivo di un testo. In questo processo l'elaborazione e la scrittura avrebbero dunque richiesto assai poco tempo, secondo quanto precisa lo stesso scrittore: "Ma la materia per me è niente, perché in due settimane ne truovo, da quel poco che ho studiato, quanto mi basta per un libro; mi manca il tempo da comporre; ché l'Istoria tutto il vuole per sé". A questa perfezionata tecnica dell'inventio si accompagna la "qualità della prosa bartolia-na, dove tutto scorre così facile e abbondante ed è tutto cosi controllato e puntigliosamente riveduto: frutto di un'educazione retorica che era insieme disciplina del pensiero ed esercizio di alto artigianato compositivo", annota Bice Mortara Garavelli nella sua densa ed elegante introduzione. Cura e controllo meticoloso della scrittura, ricchezza della lingua, eleganza dello stile, sono pregio e bellezza della Ricreazione del savio, opera molto celebrata a ragione in passato. Delle due edizioni stampate in vita dall'autore — nel 1659 e nel 1684 — è riprodotta la seconda, sottoposta a una radicale revisione e che deve quindi conside- Un Don Ferrante intelligente di Elisabetta Soletti rarsi definitiva. Infatti le varianti del 1659 riportate nella Nota al testo indicano la coerenza e la sistematicità di alcune correzioni linguistiche, conformi del resto con le soluzioni proposte nei trattati grammaticali del Bartoli, mentre alcune aggiunte o soppressioni di passi bene illuminano sull'evoluzione degli interessi culturali dello scrittore. Non meno ricca e interessante l'analisi della scrittura bartoliana celebrata anche in passato. Lo stile del Bartoli "tutto risalti e ri- lievi" (questo pregio, tra gli altri, sottolinea Leopardi), è mosso, composito e vario per la continua alternanza dei piani discorsivi e dei registri. Il "savio in discorso con la natura" indica nella sua veste più letterale un dialogo e un intreccio tra il latino delle fonti e l'italiano, che si alternano con naturalezza senza creare bruschi salti tonali. La profonda sensibilità ritmica dello scrittore armonizza e ricrea lo stile della citazione nella pagina o, viceversa, riadatta e rimodella ad arte la cita- zione perché meglio si fonda nel tessuto discorsivo. La sintassi ora si distende ampia e fluente in rigogliose enumerazioni, come in alcune splendide parafrasi con variazioni da Agostino, ora assume un andamento spezzato, scandito dalle insistite sequenze di interrogative, che riproducono l'enfasi oratoria di alcuni passi di Ambrogio e di Tertulliano. Ma, su tutto, hanno rilievo la vivacità e l'efficacia espressiva delle descrizioni che sono animate e "teatralizzate". Lo scrit- Narratori italiani Amarcord 1960 di Cesare Pianciola goffredo Fofi, Strana gente, 1960. Un diario tra Sud e Nord, Donzelli, Roma 1993, pp. 148, Lit 16.000. Goffredo Fofi ha ritrovato inaspettatamente due grossi quaderni con un diario che tenne a ventitré anni dal gennaio all'ottobre del 1960. E la testimonianza di un periodo "cruciale, essendo nientemeno che quello della fine dell'Italia contadina e dell'avvento del benessere", del boom economico e della grande trasformazione, dell'emigrazione di massa nel triangolo industriale e nelle metropoli del nord europeo; sulla scena politica italiana c'è il tentativo clerico-fascista del governo Tambroni, con la rivolta popolare di Genova e i morti di Reggio Emilia; sulla scena internazionale i grandi si muovono tra distensione e minaccia atomica. L'unità del diario è nella storia di un progetto che verrà abbandonato, di "lavoro di comunità" in Calabria, insieme con Gisella di ]uvalta, Giovanni Mottura, Vittorio Rieser e altri. Era patrocinato dall'Associazione per l'intervento sociale, fondata a Torino da Gigliola Venturi per sostenere l'attività che Danilo Dolci svolgeva negli anni cinquanta a Partinico e ora in rotta con lui. Subito dopo il diploma magistrale anche Fofi era sceso nel 1955 in Sicilia a lavorare con Dolci; poi nel '58 aveva ottenuto una piccola borsa di studio per una scuola di assistenti sociali a Roma. Molte pagine del diario sono registrazioni del tirocinio svolto presso la clinica neuropsichiatrica dove seguiva un gruppo di bambini ricoverati e sono tra le più belle, testimonianza di una vocazione pedagogica che l'autore ha poi "de- professionalizzato" trasferendola sul suo modo di fare cultura e politica. Il libro comincia con un "campo invernale" sull'obiezione di coscienza al centro valdese di Agape e termina a Torino: "Colloquio con Panzieri all'Einaudi: al Sud per ora non ci sono prospettive serie di lotte, c'è solo, a breve periodo, l'emigrazione: i contadini meridionali vengono al Nord e diventeranno operai. Insiste per Torino". A Torino Goffredo Fofi si fermerà qualche anno preparando il libro su L'immigrazione meridionale a Torino che uscirà nel 1964 da Feltrinelli dopo essere stato rifiutato da Einaudi. Ma "fermarsi" nel caso di Fofi va scritto tra virgolette. Anche il diario è un talvolta frenetico spostarsi per riunioni e incontri, per tenere contatti e stringere legami con situazioni e persone: coetanei e più anziani come Calogero, Rossi Doria, De Martino, Bobbio, Laporta, ma soprattutto Aldo Capitini, dell'Umbria francescana come Fofi, animatore di esperienze ai margini delle grandi istituzioni, all'incrocio "tra politica e cultura, tra pedagogia e religione". Sono queste dissidenze dalle Chiese, dai Partiti, dalle Accademie, che Fofi ha sempre amato sull'esempio del suo primo maestro. Anche le riviste di cui è stato redattore e fondatore hanno cercato di collegare trasversalmente e di far interagire minoranze critiche e aggregazioni di base. Chissà che oggi, con la fine dei tradizionali schieramenti polari e la crisi degli apparati politici di regime, non si apra uno spazio più favorevole al metodo di lavoro che a partire da questo lontano diario tra sud e nord è stata la bussola del continuo viaggiare di Fofi. tore infatti crea fondali "con raffigurazioni fittizie di scene riprese come dal vivo" (Introduzione), e dentro questi scenari gli autori, come attori, sono introdotti a parlare guidati, si direbbe, da didascalie di regia ("S'alza qui Tertulliano";"Grida colà appresso sant'Agostino un non so chi"). In questa animazione dialogica continuamente si inserisce il narratore che spezza la solenne monotonia del discorso dottrinario e dell'esegesi erudita con commenti di stampo colloquiale che simulano la spontaneità e la' negligenza del parlato. Ad apertura di pagina si leggono espressioni proverbiali, immagini colorite, anche ironiche e burlesche, similitudini che appianano la difficoltà concettuale del discorso ("Quante parole tanto oro"; "Giobbe, che alle tante saette che gli piagavano il corpo, sembrava, per così dire, un istrice"; "Agostino... ebbe gli antipodi a beffe"; i pianeti non sono chiusi "entro sfere di cristallo, comprese l'una entro l'altra come gli scogli delle cipolle"). Dietro questo stile brillante, dietro questa somma padronanza del mezzo espressivo si riconosce l'esperienza del celebre e ammiratissimo predicatore. Ma per l'una e l'altra esperienza decisivo è il modello della "composizione visiva del luogo" teorizzata da Ignazio di Loyola negli Esercizi spirituali. Su questo nuovo e fecondo spunto interpretativo si sofferma la curatrice sottolineando l'energia e la forza della rappresentazione mentale "nel dare corpo, ordine e vita al repertorio figurativo del Bartoli". Alla potenza dell'immaginazione nel far vedere attraverso i testi si accompagna l'osservazione diretta. Lo scrittore condivide l'entusiasmo del secolo della nuova scienza per il metodo sperimentale, per la possibilità di cogliere per mezzo dello "stupendo artificio" del microscopio le proprietà e la stupefacente complessità di ogni organismo. Quasi topica allora in questo senso l'osservazione della "notomia del ventre d'un piccolissimo seme", che il sole non trascura di lattare "con le rugiade"; dei "minutissimi animalucci"; la descrizione da antologia delle chiocciole, che molto concede all'esuberante descrittivismo barocco, ma che pur si fonda sullo studio diretto delle collezioni di Kircher conservate al Collegio Romano. Spontanea allora l'associazione con il nome di Galileo e della sua scuola, oggetto di elogio nei posteriori trattati scientifici, anche se i fondamenti della nuova scienza sono inaccettabili per intima convinzione e coerenza. Semmai con Galileo il grande gesuita condivide l'atteggiamento affabile e cordiale verso il lettore, la capacità soprattutto di divulgare il sapere con eleganza, non priva di ironia, e di restituire a chi legge la profondità di un'affascinante avventura dell'intelligenza. Donne e intellettuali scombinati di Luisa Ricaldone Massimo Riva, Saturno e le Grazie. Malinconici e ipocondriaci nella letteratura italiana del Settecento, Sellerio, Palermo 1992, pp. 306, Lit 28.000. Malinconia e ipocondria vengono assunti, in questo saggio complesso e tuttavia di amabilissima lettura, come i sintomi di una coscienza moderna in formazione: segni distintivi di un'epoca, il Settecento, nella quale avviene una profonda mutazione della sensibilità e sintomi particolarmente evidenti nel letterato che, in quanto espressione massima di quella nuova sensiblerie, porta impressa nel suo animo e nei suoi scritti quella patologia. Ma malinconia e ipocondria denotano anche, più generalmente, i guasti di una classe sociale al tramonto: i danni provocati da un'esistenza oziosa e molle, da costumi privi di valori, perfino da una moda nell'abbigliarsi che mortifica la salute del corpo in nome dell'immagine, sono così evidenti e diffusi fra gli aristocratici da produrre un quadro di desolante raffinatezza. E contro queste malattie, del corpo e dell'animo, che scrivono medici e moralisti. Tissot, Pujati, Chiarugi e quanti altri si sono occupati nel XVIII secolo della salute della gens de lettres concordano nel ritenere l'applicazione mentale una fonte di malesseri, di in- quietudini psichiche, di bizzarrie, di una vita infelice insomma. In realtà non dicono nulla di nuovo. Aristotele e Ippocrate avevano sottolineato prima di loro l'aspetto insano della vita sedentaria e degli sforzi intellettuali connessi al mestiere dello studioso e dello scrittore. Ma dicono cose nuove quando colgono un sottile filo di equivalenza tra la vita del letterato e quella dell'aristocratico: in entrambi sarebbe avvenuto il distacco dalla natura, sia nel senso dell'abbandono del lavoro fisico, sia in quello della scelta di un'esistenza cittadina. "Malattie tipiche insomma di una civiltà urbana e parassitica, se non consumistica ante litteram", scrive Riva. Su un altro piano, malinconia e ipocondria appartengono alla natura del genio, ne caratterizzano il temperamento e permettono la creazione dell'opera d'arte. Esemplare al riguardo è Vittorio Alfieri, al quale Riva dedica molte pagine del suo brillante saggio: per il tragediografo la vocazione letteraria è causa di turbe nervose e nello stesso tempo ne costituisce la medicina. La scrittura come veleno e insieme come antidoto: un tema che ebbe fortuna nell'Ottocento, a cominciare da Leopardi, e che Alfieri inaugura nel Saul e soprattutto nell'autobiografia. Ma se il genio è malinconico e ipocondriaco, le donne sono, invero, più ipocondriache che malinconiche, anche senza essere geniali. Le loro "nervose affezioni" deriverebbero dall'educazione letteraria, che è il risvolto controproducente di quel processo di alfabetizzazione e di lettera-rizzazione della società così diffuso nel secolo dei Lumi. Varie opere di teatro, dalla Donna di testa debole di Goldoni alle Convulsioni di Francesco Albergati Capacelli alla Dottoressa preziosa di Jacopo Angelo Nelli e alcuni saggi di moralisti descrivono donne in preda ai vapori (ovvero a crisi isteriche) proprio a causa della loro passione per lo studio e per la lettura, o impazzite perché hanno confuso il piano della realtà con quello della fiction, come è il caso della Marfisa bizzarra del poema omonimo di Carlo Gozzi, una sorta di versione femminile di don Chisciotte. In realtà, attraverso queste rappresentazioni di donne passa un messaggio ideologico molto chiaro: leggere o, peggio, scrivere, è per la donna un atto di affermazione di sé, ovvero un allontanamento se non un rifiuto del suo ruolo di moglie e di madre. Attenzione — dicono i misogini settecenteschi —: il prezzo della trasgressione è la follia. Sotto l'ombrello della patologia nervosa troverebbe allora spazio non solo il genio, né solo un ceto colto nella fase iniziale del suo decadimento, ma anche le donne, in quanto composte di "fibre" più "molli" di quelle degli uomini. Esse però, in quanto rappresentanti di un gruppo emergente, insinuano angoscia nell'inconscio dell'uomo, il quale teme di non trovare più nella donna quell'altro da sé, obbediente e incolto, che gli assicura il potere.