<3 numerali antichi) per fortuna già segnalato ai lettori italiani dal compianto Raimondo G. Cardona nella sua notissima Antropologia della scrittura del 1981. In tema di storia della scrittura sono proprio le conclusioni di studiosi come Schmandt-Besserat e Cardona che meritano di uscire dai circuiti specialistici e di raggiungere un pubblico più ampio; si eviterebbero valutazioni generali di terrificante superficialità come "la funzione primaria della comunicazione scritta è... quella di facilitare l'asservimento... il suo scopo primario è quello dell'assoggettamento dei più deboli". Nei famosi mercoledì einaudiani non risulta sia stato chiesto il parere di consulenti storici di cui potremmo immaginare i brividi di fronte ad affermazioni simili. Perché allora è stata scelta, per aggiornare il pubblico italiano, un'opera con questo taglio? Perché dare una cambiale in bianco allo studioso belga, valente in settori specifici ma privo della prudenza storica e della sensibilità culturale richieste da problemi di rilevante portata per la storia della civiltà? Siamo senza risposta: ma sospettiamo che responsabili siano l'impazienza editoriale (quella che fa ritenere "noiosi" gli esperti che invitano alla prudenza) e il funesto apprezzamento per le tesi forti che "fanno discutere" (ma non è noioso proprio questo au-togenerarsi della discussione?). Ci sono settori disciplinari in profonda evoluzione caratterizzati da frammentazione e specializzazione eccessive. Per aprirli all'esterno occorrerebbero studiosi in grado di signoreggiare individualmente vasti ambiti di conoscenze; in mancanza di questi — e gli editori dovrebbero convincersi che se non ci sono non si possono inventare — meglio ricorrere a équipe di specialisti che tengano in equilibrio sintesi e rigore sull'esempio della bella raccolta di saggi curata da Pietro Rossi, La memoria del sapere. Forme di conservazione e strutture organizzative dall'antichità a oggi (Laterza, 1988). Visite guidate speciali nel caso delle bambinaie, delle levatrici, le infermiere, la capoinfermiera, la caposegreteria, fino alla vekil usta, la 'procuratrice'. E, sempre, dentro quest'ordine c'è, latente, l'arbitrio del Sultano (sultàn, termine coranico che significa 'autorità'); dopo di lui Vulu vezir, il gran visir, il primo ministro, e vicira in iraniano vuol dire 'colui che decide, che giudica', anche se le rivalità di molti personaggi sottoposti a questo potere rende spesso precario il ruolo stesso del gran visir. E l'habitat entro cui si muovono queste figure è il Palazzo imperiale. All'interno del Palazzo, sta l'Harem, dall'arabo harim, 'luogo proibito, sacro, inviolabile'. Il più vasto Harem era quello d'Istànbul, quattrocento vani collo- <3 all'harem di Massimo Oldoni Gabriele Mandel, Storia dell'Harem, Rusconi, Milano 1992, pp. 249, 8 taw., Lit 35.000. Un libro di storia è un libro di storia, e un libro che introduce a segreti resta un libro di storia con qualche mistero svelato che non penseremmo. L'Harem di Istànbul è il libro di storia, e la sua storia ci svela i misteri della potenza ottomana: al centro di questa, la valide, la madre del successore del sultano che l'aveva preferita, e poi i figli, chiusi nella gabbia della parentela fraterna o fratellastra. Tutto funziona nell'ordine immutabile del progetto, delle madri, dei figli, dei riti. Ma la violenza di quest'ordine disdice quella immutabilità: e non la violenza elegante degli eunuchi, neri o bianchi che fossero, autentici perni sui quali ruotava il ritmo della vita immensa dell'Harem; e nemmeno la violenta affabilità delle odalische (cameriere, da oda 'stanza') che regolavano la vita quotidiana del Sultano con le loro differenti mansioni proprie di usta, sovrintendenti al Palazzo, di haznedar, tesoriere, che organizzavano il succedersi delle donne nella camera del Sultano, e poi di assaggiatrici, addette alla biancheria, donne-barbiere, coppiere, assistenti al bagno, dispensiere. Anche in questa gerarchia di ruoli c'è ordine, rispetto dei compiti, del tutto Idei libri del mese! LUGIIO 1993 ■ N. 7, PAG. 39 bianchi, di origine non africana, componevano il personale permanente del Palazzo: mantenevano la disciplina, seguivano gli studi dei paggi, ragazzi fra i sei e i nove anni che i sudditi cristiani dovevano fornire come contributo. I paggi attendevano a tutti i servizi del Palazzo imperiale (lavanderia, cucine, giardinaggio, pulizie, restauri). Il mondo del Sultano era, dunque, fondato su questa duplice struttura, il Palazzo e l'Harem. Gli eunuchi circolavano liberamente, anche se non potevano trascorrere la notte nell'Harem; "servivano i loro padroni ma si rendevano anche complici delle padrone" scrive Gabriele Mandel che, dopo aver pubblicato nel 1991 II Corano senza segreti, sembra nemme- hanno fatto baluginare i molti viaggiatori dei secoli passati... le cui relazioni molto fantasiose vennero ripetute da non pochi scrittori prima che si pubblicassero le più corrette ed equilibrate informazioni di Lady Montagu". Infatti, Lady Mary Wortley-Montagu, viaggiando nel 1717 da Vienna a Costantinopoli al seguito del marito ambasciatore della corte inglese presso la Porta Ottomana, scrive quelle memorabili Letters dove è sollevato il velo, come quello che copriva il loro volto, sulla condizione delle donne nella società turca. Accanto a questa testimonianza, Mandel cita altre pagine di viaggiatori occidentali alla Porta del Sultano e il suo libro diventa l'interessantissima descrizione d'un luogo ~ì Sodalizio Glottologico Milanese", 1987. Affrontando la vexata quaestio del significato del nome di Edipo, Silvestri proponeva che quel nome, che vale "piedi gonfi", si riferisse, attraverso la deformazione dei piedi di Edipo, sconciati dai ceppi che trapassavano i malleoli del neonato esposto, alla negata identità dell'eroe e all'agnizione impossibile che sono così cruciali nel mito. Il nome Edipo sarebbe dunque il contrario di un nome: il segno dell'impossibilità di riconoscere. Un simile arricchimento "edipico" del dossier di Bettini porta più avanti la problematica, che mi sembra centrale nel Ritratto dell'amante, delle strategie d'identità, e non dovrebbe dispiacere all'autore, reduce da battaglie congressuali sulla zoppaggine di Edipo. È il caso di ripetere che il dossier del Ritratto dell'amante si potrebbe ampliare in modo illimitato, anche per quanto riguarda le tematiche meno "tangenziali"? Se si vuol restare al già citato Da Ponte, per esempio, basterà volgersi al libretto del Così fan tutte mozartiano, che con quel tema gioca in modo particolarmente malizioso — e significativo. Nel primo atto, Dorabella e Fiordiligi cantano a lungo insieme ognuna le meraviglie del proprio amante, assente e presto richiamato "al marzial campo", e ne descrivono entusiaste il ritratto, che tengono in mano. È un brano anche musicalmente alto; ma prepara e rende più crudelmente ironico il seguito, che consisterà nell'amore, sbocciato rapidamente nei giorni successivi, delle medesime Dorabella e Fiordiligi per due begli Albanesi baffuti. Costoro, come sa ogni persona ben educata, sono in realtà i due amanti in carica travestiti — che hanno finto di partire per mettere alla prova le fanciulle. E hanno avuto l'accortezza di scambiarsi di posto, corteggiando in incognito l'uno l'amante dell'altro — forse per evitare un confronto rivelatore con il ritratto. Caso estremo d'incostanza: scambiarsi gli amanti senza saperlo; vagheggiare un assente contemplandone il ritratto e poco dopo — subito dopo! — accettare la corte di un finto straniero solo apparentemente sconosciuto; giurar fede eterna e non saper restar fedele se non per pochi giorni. Ma, soprattutto, caso estremo dell'incapacità di riconoscere, grado zero dell'individuazione. E come tale, rovesciamento simmetrico anche se implicito di quelle pratiche individuanti mediante le quali la cultura popolare europea consente alle fanciulle di divinare chi sarà il loro sposo. Come nel caso piemontese descritto da Filippo Seves nel volume X dell' Archivio delle Tradizioni Popolari di Pitrè: "Alla vigilia dell'Epifania alcune fanciulle prendono una scodella nuova, la riempiono d'acqua e v'immergono tre pezzetti di carta, su l'uno dei quali è scritto: 'morte', su l'altro: 'matrimonio' e sul terzo: 'nubile'. Espongono quindi il recipiente all'aria aperta affinché geli durante la notte. Al mattino guardano la scodella, se l'acqua si è congelata, si sforzano di vedere nella massa qualche figura speciale che lontanamente accenni alla professione che eserciterà l'uomo che dovranno sposare". O come nella serata di Sonia e Natascia nel tolstoiano Guerra e Pace, quando Sonia suggerisce: "Siediti, Natascia, e guarda nello specchio: vedrai forse il tuo futuro sposo". "Natascia si sedette dopo aver acceso due candele che piazzò ai due lati dello specchio... Si mise a fissare, in silenzio, con gli occhi rivolti allo specchio; assunse un'espressione di grande raccoglimento, e restò a lungo ad aspettare, domandandosi che cosa avrebbe visto. Sarebbe stata una bara, o invece l'immagine del principe Andrea, ad apparirle all'improvviso su quella superficie baluginante e confusa — ove i suoi occhi stanchi non distinguevano più se non a fatica la luce vacillante delle candele?" Ancora strategie d'identità: questa volta strategie divinatorie, nelle quali il ritratto dello sposo non solo assente, ma futuro s'intreccia in modo perturbante e allusivo con l'immagine della morte. In uno specchio. cati tra il màbeyn (le stanze private del Sultano) e l'alloggio dei capi degli eunuchi neri. Gli eunuchi neri provenivano tutti dall'Egitto, avevano fra gli otto e gli undici anni; gli eunuchi no questa volta trovare segreti nell'in-trodurci alle realtà dell'intimità imperiale. "La vita nell'Harem era sì una vita di lusso, di agi, ma non di stravizi, dissolutezze e snervanti piaceri, come comune rovesciato: la società dell'Harem, culmine dei poteri politici nelle vicende di secoli e secoli di sultanato ottomano, dal XII al XX secolo. A una prima parte, dedicata agli Ottomani, l'autore fa seguire una seconda la cui tematica ben esprime l'accuratezza dell'indagine (ordinamento del Palazzo, la famiglia e la casa, l'organizzazione dell'Harem, la vita nell'Harem, l'impero delle regine madri, la guerra delle due regine, declino e fine delle validè sultàn). Una visita all'Harem chiude la storia, per intendere la quale sono davvero preziose le appendici dedicate ai sultani ottomani e alle loro valide, alle donne e ai figli dei sultani. Un glossario permette, infine, un ingresso linguistico in questo bortus conclusus la cui regola di vita non impedisce al lettore di cogliere forme represse, compresse d'una convivenza talvolta violenta pur nell'applicazione di norme e comportamenti dove la ritualità e l'antichità della tradizione non hanno impedito il mutare delle cose, la sparizione dei costumi, se non, forse, delle mentalità. Riciclaggi della guerra di Tiziana Lazzari Paolo Galloni, Il cervo e il lupo. Caccia e cultura nobiliare del Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 249, Lit 35.000. Paolo Galloni ha studiato gli atteggiamenti culturali dell'aristocrazia medievale attraverso l'analisi del sistema di valori e di simboli che essa connetteva all'attività venatoria. Un lavoro nel quale la ricerca storica si coniuga all'indagine antropologica, dato che nell'esercizio della caccia e nei suoi rituali traspaiono istanze fondamentali del vivere sociale: "la guerra, il potere, la sessualità, l'iniziazione e la solidarietà tra maschi". Ricordando come il ceto aristocratico che si affermò nel medioevo traeva le radici della propria affermazione sociale dall'esercizio della forza fisica, in guerra così come nell'esistenza quotidiana, Galloni riesce a ricostruire in modo vivace quale funzione avesse la caccia nella vita di un guerriero: esercizio meno cruento e pericoloso della battaglia, l'attività venatoria assumeva un valore propedeutico nell'educazione dei giovani, così come costituiva un utile esercizio nei periodi di inattività di cavalieri. La caccia era assai apprezzata dall'aristocrazia medievale perché ben si prestava alla trasmissione e all'esaltazione di valori fondamentali per un ceto militare. Confrontando testimonianze di età medievale e di età romana, Galloni dimostra come la caccia non sia di per sé portatrice di valori bellici ma come sia invece la cultura sociale del tempo a caricarla di significati guerrieri: infatti, mentre ad esempio in età romana la caccia al cinghiale veniva consigliata nei periodi più caldi dell'anno, quando l'animale era meno pericoloso e il terreno di caccia, la boscaglia, era più agevole per gli uomini, nell'alto medioevo venivano predilette le battute autunnali e invernali rese rischiose dal terreno, scivoloso per le piogge, e dall'aggressività delle bestie per le quali l'autunno è il periodo degli amori. Questi uomini dalla mentalità guerriera trovavano dunque piacere nell'affrontare l'animale quando questo era maggiormente pericoloso e disdegnavano per lo più armi da lancio, prediligendo invece quelle che comportavano un contatto diretto con la preda, uno scontro corpo a corpo. La forza fisica, il coraggio, la destrezza: qualità proprie dei combattenti che la caccia mette alla prova ed esalta. Anche il frutto dell'attività venatoria, la selvaggina, si carica di simboli in questo contesto: dimostrare un insaziabile appetito per la cacciagione arrosto significa aderire anche con i comportamenti alimentari alla mentalità della casta guerriera dominante. L'atteggiamento dei monaci e dei penitenti è in tal senso assai indicativo: il rifiuto dell'alimentazione carnea comportava un'esplicita negazione di un modello sociale e culturale che faceva dell'esercizio della violenza il cardine del proprio sistema di valori. Si accenna infine ai cambiamenti che le pratiche venatorie subirono parallellamen-te alla trasformazione dell'aristocrazia medievale: alla caccia praticata nelle foreste, gravida di pericoli e di rischi fisici, si sostituì l'esercizio venatorio in una condizione ambientale protetta, in riserve; una trasformazione significativa se la si accosta al cambiamento di una classe dirigente che, nata e impostasi con la foza, voleva in seguito continuare a manifestare i comportamenti che l'avevano distinta, svuotati ormai di contenuti sostanziali ma forti per una carica simbolica, manifestando così un grado notevolissimo di autocoscienza sull'origine violenta del proprio potere.