[INDICE ■ dei libri del meseIH LUGLIO 1993 - N. 7, PAG. 8 Narratori italiani Artificio e pseudoteologia di Francesco Roat Giorgio Manganelli, Il presepio, Adelphi, Milano 1992, pp. 136, Lit 24.000. È con un'inedita confidenza dal sapore autobiografico che si apre 11 presepio di Giorgio Manganelli — testo di datazione incerta, benché, editorialmente parlando, sia l'ultimo dei suoi romanzi di argomento teologico-esca-tologico. "La mia memoria dei Natali infantili è estremamente penosa;... Quelle fragili fole natalizie erano terribilmente pertinenti alla denuncia della mia, della nostra indecorosità; ero circondato di magie sarcastiche", confessa l'io narrante del libro a poche pagine da un inizio dall'ambientazione insolitamente quotidiana: calato ai giorni nostri in una città anonima alla vigilia del 25 dicembre, e all'insegna di una "tetraggine" peraltro assai privata, più che generale o cosmica, come vorrebbe inferire Manganelli, dilatando pletoricamente sino ai confini dell'universo un proprio disagio e disamore (davvero un po' puerile, benché autentico, il che per Manganelli non è poco) per le "fole natalizie", e la "favola infantile" dell'Evento. Natale quindi visto come il residuo arcaico d'una mitologia illusoria e mendace, che il presepe teatralmente reitera a ogni fine anno, mediante una rappresentazione scenica, contro cui l'io narrante si oppone, calandosi in essa per smascherarne i supposti errori e orrori. Occasione più acconcia per un fabulatore di controteologie quale è stato Manganelli non si poteva dare, né arena o palcoscenico dove meglio allestire un duello a colpi di trovate metafisiche fra il Retore e gli inossidabili pupi dell'epifania. Così lo scrittore ci guida dietro le quinte del presepe: macchina teatrale attraverso cui, a suo dire, si perpetua a nostro danno la commedia teologica; così l'Accidioso si insinua fra i magi e i pastori intenzionato a giocare la sua "burla teologica", con la scusa di contestare il Natale in quanto preteso "evento dell'inizio del Significato". E, come era prevedibile, il presepe che Manganelli ci mostra, si rivela un'equivoca macchinazione diabolica, un'allucinazione cosmica, un terribile artificio, in cui gli angeli (i "maggiordomi degli inferi") si rivelano demoniaci ambasciatori dell'insignificanza universale, il compito dei quali consiste nel penetrare nel nostro mondo attraverso il teatro suasivo del presepe, onde "offrirci come spiegazione il delirio"; in cui la Madre finisce per mostrarsi una inquietante e terribile Moira; e in cui il Bambino costituisce l'incarnazione dell'illusione e rappresenta la quintessenza dell'abbaglio metafisico. Unica figura simpatica dell'ango-sciastico presepe, secondo Manganelli, è il Padre putativo, san Giuseppe insomma, umilissima comparsa nei panni d'un povero vecchio che si rivela pedina inconsapevole di un gioco più grande di lui; minuscolo seppure essenziale ingranaggio di un meccanismo che egli pare non poter né comprendere, né ancor meno gestire / ("Come ci somigli, vecchio che non sai e non capisci, ma che stai nel centro, nel cuore del disordine, del prodigio, della rappresentazione, del gioco, della tragedia..."). Tutti quindi, volenti o meno, dai pastori al bue e all'asinelio, appaiono come manutengoli dell'Errore. Che è ciò a cui sembra ridursi per il Nostro il Natale, e il Presepe, sua didascalica figurazione. Errore peraltro impossibile da esorciz- zare, ineludibile; da sempre implicito in ogni intento speculativo (religioso o meno che sia) messo in atto dall'uomo nell'illusione di poter spiegare l'inesplicabilità dell'esistere. La dannazione nostra quindi sarebbe per Manganelli l'errore, come il destino della parola filosofica, la cui fatalità consisterebbe nel volgersi sempre e comunque in metafìsica, nella sua vana ricerca del Significato. Nel Presepio dunque ritornano e si precisano temi già affrontati negli altri scritti pseudoteologici, soprattutto in Hilarotragoedia. La divinità (sempre infausta, infera, terrifica, annichilatri-ce) assurge a metafora di un destino che ci consegna alla morte e al nulla, e non vi è filosofia o parola che possa mai trovare un senso a tale costante venir meno, a tale nostra e universale vocazione discensionale ed entropica. (Si ricordi l'immagine che chiude Hilarotragoedia, con il dio-buco nero che tutto assorbe in sé, tritura ed espelle in forme escrementizie: humus di ulteriori effimeri universi). Per Manganelli quindi la letteratura non può fornire spiegazione né consolazione alcuna che non sia il suo inscriversi nel gioco cosmico insensato dell'universale discesa verso il nulla. Se infatti senso non si dà, ma "tutto è solo grado del languore, e grado della allucinazione" (ne La palude definitiva), se la parola si rivela errore, cioè impossibilità di poter mai giungere a una qualche formulazione non mistificatrice, non rimane alla scrittura che perenne artificio e finzione o, per dirla col Nostro, la trasgressiva "rivelazione mistificatrice" di una letteratura consapevolmente menzognera, che tuttavia, non volendo spacciarsi per altro da ciò che è, ovvero mero gioco capace di evocare inferni e paradisi, può pervenire a una sorta di eccentrica, provocatoria dignità inventiva. Arrendersi al non senso, asserire che ogni costruzione linguistica è sempre arbitrario travisamento, se non permette di uscire dal circolo vizioso tautologico di un linguaggio sofistico che a detta del Nostro "è semplicemente organizzazione. Di niente. Organizzazione di se stesso", gli consente quantomeno di prendersi una rivincita teologica nell'ideazione di una struttura testuale volutamente demen- ziale e onirica, in cui ci si compiace fatuamente di inventare fantasiose creature mondane e surreali, finti scenari entro cui dar voce ai virtuosismi delle figure retoriche — fra cui è privilegiato l'ossimoro, per la sua eversiva forza scardinatrice del principio di noncontraddizione — onde produrre gli "incastri di lucidi fonemi" dell'artificio letterario fine a se stesso. Così, anche nel Presepio, Manganelli talmente a proprio agio si trova nei panni di fabulatore teologo da improvvisarsi a suo modo profeta, da pi- gliar toni apocalittici e parlarci della fine (intendo dell'estinzione definitiva: e del presepe e del mondo) in pagine peraltro di irresistibile parodia e indubbia vis comica. Pagine benché allucinate e talvolta forzatamente ridondanti, dilatorie, iperletterarie — concepite tuttavia con una tal dovizia metaforica, con una tale vivacità espressiva ed evocativa, mediante una così audace tecnica stilistica, da confermare ancora una volta la presa suggestiva e intrigante di quel grande visionario neobarocco che fu il Nostro. Così, al termine del Presepio, non già un'onnivora e apatica divinità chiude lo scenario escatologico — come in Hilarotragoedia —, bensì un baratro posto all'"orlo del mondo" (che è poi altra variante del precipitare nel Nulla) in cui il presepe, lillipuziano mondo epifanico, precipita assieme al dio Bambino. Ma tant'è, per Manganelli risorgeranno altri Dei ulteriori con cui baloccarsi ancora, a scongiurare l'assenza di significato e l'angoscia di morte mediante l'esorcismo lenitivo dell'enfasi fabulatoria. In articulo mortis di Paolo Griseri igor Man, Gli ultimi cinque minuti, Sellerio, Palermo 1992, pp. 104, Lit 10.000. Quanto vale la morte? La domanda non è priva di una certa assurdità. La morte è un assoluto, anzi è l'assoluto, e non sopporta certo di essere relativizzata, di essere ingabbiata in graduatorie. In due luoghi queste considerazioni generali sulla morte vengono clamorosamente contraddette: negli uffici di una compagnia di assicurazione (dove ogni decesso ha un suo prezzo e un suo valore) e nella redazione di un giornale. Nei giornali la morte è come la vita: ha un'unità di misura precisa, il numero delle righe. E le righe che Igor Man dedica a ognuno dei fatti di cronaca nera da cui prendono spunto i suoi racconti sono molte, anzi troppe. Volutamente troppe, fuori da ogni canone classico di valutazione. Quante righe si possono dare a un titolo che recita: "Travolto dal tram mentre scende alla fermata"? Dieci righe, venti al massimo. È una storia banale, di quelle che non valgono nemmeno la fotografia del defunto. In redazione si dice che morti come questa valgono "una breve", lo spazio di un francobollo. Nei giornali di oggi, dove l'informatica ha cambiato le vecchie abitudini, una "breve" non si scrive nemmeno più: si schiaccia invece un tasto e si infila "di peso" il lancio di agenzia nel disegno della pagina. Qualche piccola modifica e la morte è servita, confezionata, digerita. Del resto, se si tratta di una morte "normale", se non c'è una bella storia da raccontare, non c'è ragione per "allungare il brodo". E il giornalista svedese che racconta al suo direttore come sono morti i figli, annegati nel Tevere, sente a un certo punto il dovere di giustificarsi: "Non è una leggenda, signor direttore, è una notizia, è la notizia, la mia notizia. Non dica, come sempre, che faccio troppo colore". È un gioco cinico quello delle notizie. Lo era nel '51, quando Man scriveva la prima parte di questi racconti (oggi pubblicati dalla casa editrice Sellerio con il titolo Gli utltimi cinque minuti), lo è ancora oggi, nel giornalismo del villaggio globale, nella società dell'immagine e dei fatti raccontati in presa diretta. Ma anche quello del cinismo è un gioco che si può rompere: basta rovesciarne le regole. Basta provare a fare quel che a un giornalista è sovente sconsigliato, vivere la notizia dalla parte dei protagonisti e non dalla parte del lettore. Man si avventura oltre il limite consentito al cronista, si immedesima nelle emozioni dei protagonisti, quei protagonisti che nella "nera" sono quasi sempre vittime. Dilata le loro sensazioni nei cinque minuti più importanti della vita, gli ultimi. Amplifica quel tempo estremo e aumenta a dismisura lo spazio, lo spazio che in un giornale è anche tempo di lettura. Sovverte le regole perché solo così facendo si può capire quanto spessore umano ci sia anche nelle minutaglie della cronaca. E quanto i giornali (degli anni cinquanta come degli anni novanta) siano gerarchie opinabili di notizie, come erano opinabili i bollettini di guerra di inizio secolo. In fondo, Remarque fece un'operazione analoga: scrisse un intero libro partendo da una "breve".