Idei libri del mese! LUGLIO 1993 - N. 7, PAG. 28/VIII Storia Alexandre Grandazzi, La fondazione di Roma, prefaz. di Pierre Grimal, Laterza, Roma-Bari 1993, ed. orig. 1991, trad. dal francese di Barbara Fiore, pp. 296, Lit 35.000. La fondazione di Roma non come verità prestabilita e indiscutibile ma come ipotesi necessaria: su quest'assunto di verifica Grandazzi costruisce la propria indagine sui Primordia romana, alla ricerca di una terza via fra quella che egli definisce l'"ipercritica" illuministico-positivista del rifiuto della leggenda, da un lato, e l'adesione letterale dantesco-petrarchesca alla tradizione liviana, dall'altro. In questa difficile impresa l'autore ripercorre sia gli esiti, particolarmente significativi negli ultimi decenni, della ricerca archeologica, sia i dati delle fonti letterarie: ma è nel momento del confronto fra le due filières documentarie che il lavoro di Grandazzi abbandona la via consueta della somma e della giustapposizione delle informazioni, affermando nella sostanza l'inconciliabilità fra le due categorie di conoscenza e sottoponendo a serrata critica — attraverso una di per sé utile rassegna storiografica — ogni precedente metodologia di approccio al problema delle origini dell'urbe. Poiché la storia non può ripetere le esperienze che analizza, si vorrebbe a volte che i suoi risultati fossero a priori sprovvisti di validità: errore metodologico grave, in cui, secondo Guerrazzi, incorrono gli ipercritici, i teorici del "tutto è vero" contrapposti ai semplificatori fideisti del "tutto è falso"; in realtà nei casi come quello della fondazione di Roma la sola verifica concepibile di una serie di dati "inverificabili" è la "falsificazione" popperiana, ovvero la riprova di tutte le contro-ipotesi possibili. E qui il giovane studioso approda a una sorta di neorivalutazione della tradizione, intesa come base di interpretazione "non circoscrivibile": mentre, a suo parere, tutti i sistemi di esegesi che si era creduto di poter sostituire ad essa si sgretolano uno ad uno, la tradizione appare, più che mai, il luogo da cui ogni analisi deve partire per tornarvi, ogni volta, a testare le sue ipotesi e le sue conclusioni. Ciò che la storia, la sociologia, l'antropologia portano all'uomo moderno, per permettergli di capire l'universo in cui vi- ve e il passato che è suo, il mito e la leggenda lo portano ai Romani dei tempi arcaici: ma quel che qui è distinzione (nel senso cartesiano del termine), descrizione, analisi, là è totalità, analogia, rituale, ricordo. Tutto finisce e tutto comincia con la fondazione di Roma. Commemorata e celebrata nel corso dei tempi, essa non è un mito che non sarebbe mai stato reale o un evento che molto più tardi sarebbe stato un mito; è un "evento" che, fin dall'avvento di Roma, è stato pensato come un mito; una storia che era, nel tempo stesso del suo compiersi, una leggenda; un inizio che era già una celebrazione e un ricominciare. La fondazione di Roma come equivalente della creazione del mondo, momento unico in cui spazio e tempo trovano la loro misura, storia mitica e mito storico, rottura primordiale e principio di eternità. Come si vede, un'interpretazione indubbiamente stimolante e, più o meno inconsapevolmente, provocatoria. Ma nella sua ardita costruzione teorica, tra Popper e Dumézil, con tratti che talvolta — forse soltanto per mera analogia di "Fondazioni" — sembrano rimandare irresistibilmente ad Hari Seldon e alla psicostoria di asimoviano ricordo, ci sembra tuttavia che Guerrazzi rischi di suggerire un modello metodologico di scarsa utilità e di alimentare nei fatti un tipo di scetticismo sulle possibilità di conoscere, diverso nella sostanza ma eguale negli esiti a quello indotto dagli odiati "ipercritici". Sergio Roda La libreria di Frederick Stibbert, a cura di Laura Desideri e Simona Di Marco, presentaz. di Lionello G. Boccia, Giunta Regionale Toscana - Editrice Bibliografica, Milano 1992, pp. 360, Lit 84.000. È uno tra i più riusciti e interessanti volumi della collana "Inventari e cataloghi toscani", arrivata ormai a quasi quaranta titoli. La cultura di un certo milieu osservata attraverso una sua condensazione concreta — la progressiva e paziente formazione di una biblioteca — è da anni oggetto di ricerche ben calibrate, particolarmente quando sotto osservazione sono state le biblioteche di categorie professionali o ordini religiosi: dalle Ricerche sulla cultura del clero in Piemonte. Le biblioteche parrocchiali nell'arcidiocesi di Torino (sec. XVII-XVIII) di Luciano Allegra (Deputazione, Torino 1978) al più recente La circolazione libraria tra i Francescani in Sicilia a cura di Diego Ciccarelli (Officina di studi medievali, Palermo 1990). Qui è analizzata e catalogata la biblioteca di un personaggio simbolico dell'italofilia della cultura inglese fra Otto e Novecento: Frederick Stibbert è anzi già frutto di quell'incontro, essendo figlio di padre inglese e di madre italiana. Facoltoso, educato a Cambridge, animato essenzialmente da interessi storico-artistici, aveva intrapreso un'attività di collezionista che tuttavia amava presentare più come "proposta educativa destinata soprattutto ai giovani": l'esito fu una costruzione museale orientata verso armature dal Cinquecento in poi (europee, islamiche, giapponesi), costumi civili, arredi sacri, dipinti relativi ad armi e abbigliamenti. I libri non erano concentrati in una grande biblioteca, bensì distribuiti in molte delle 58 sale di Villa Stibbert a Montughi, secondo un'originale idea di accostamento funzionale ai percorsi e alla visione degli oggetti. Il raggruppamento e la catalogazione successivi rispettarono, nei limiti del possibile, le primitive articolazioni concrete. Le autrici distinguono "i libri del gentiluomo" da "i libri dello studioso", mostrando senza enfasi metodologica, ma con accuratezza, l'intelligibilità dei percorsi sia di formazione personale, sia di acculturazione di un parziale autodidatta. Opera più significativa della raccolta sono sette grandi volumi di Prints and drawings serving to illustrate the modes and fashions of ancient and modem dresses, in grado di fornire una serie iconografica davvero rara. L'attenzione rivolta al bibliofilo induce poi Desideri e Di Marco a seguire la mobilità del ricco intellettuale, alla ricerca di librai in Inghilterra, Francia, Germania e in diverse città italiane: Stibbert si sposta, ma è anche al centro di una grande circolazione di cataloghi degna del Sylvestre Bonnard di Anatole France. C'è, infine, la cura attenta delle legature: e qui l'artigianato fiorentino ha un ruolo importante, anche se meno esclusivo di quanto si potrebbe pensare. Giuseppe Sergi GILBERT DAHAN, La disputa antigiudaica nel medioevo cristiano, ECIG, Genova 1993, pp. 130, Lit 20.000. "È proprio nel medioevo che, lontano dall'ebraismo antico, ma anche dal giudaismo ellenistico dei primi secoli, si delinea una religione molto simile a quella che conosciamo oggi": così, insistendo anche sulla millenaria lunga durata del medioevo, Dahan giustifica la sua scelta di analizzare contiguità e contrasti fra due "sistemi religiosi" in secoli normalmente rievocati per il trionfo anche temporale degli uni e per le persecuzioni subite dagli altri. Se per entrambi i fronti la genesi è da individuare prima, la definizione e l'assestamento dei caratteri dominanti sono invece da cercare fra V e XV secolo. Gli esperimenti di tranquilla convivenza si bloccarono nel 1096, con l'inizio delle crociate; da allora la condizione degli ebrei nell'occidente cristiano subì un pro- gressivo degrado: con segni ancora evidenti di tolleranza nel secolo XII, destinati tuttavia a sparire dalla fine del XIII, quando, dopo la cacciata ufficiale dai regni d'Inghilterra e di Francia, ogni genere di accuse si addensò sugli ebrei, costituendo terreno di coltura per un antisemitismo sistematico come quello inaugurato nella Spagna di fine Trecento. All'interno di questa periodizzazione non nuova l'autore colloca il passaggio dalle "contese informali" ai "dibattiti organizzati", dalle dispute in forma orale alla trattatistica scritta: un buon repertorio di autori e della loro capacità di costituirsi a modello per i prosecutori (fra i più efficaci il francescano Nicola di Lira, dell'inizio del secolo XIV). La parte originale del libro è quella sulle tecniche polemiche (argomentazioni, ricorso ad auctoritates, procedimenti dialettici) adottate su oggetti del contendere (il Verus Israel, il Messia) rapidamente illustrati: ma quelle pole- miche erano frutto di dialogo, non di chiusura, e questa è la tesi di Dahan, affascinato soprattutto dalle sorprendenti comunanze culturali del secolo XII. Giuseppe Sergi Vito Fumagalli, L'alba del medioevo, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 100, Lit 15.000. Fumagalli ha dimostrato, negli ultimi cinque anni, che un maquillage leggero può bastare a portare al largo pubblico anche brevi raccolte di saggi specialistici: ben quattro libri nati così (dal 1987 al 1990) hanno avuto successo, forse perché comunicavano ai lettori un medioevo, da essi istintivamente cercato, di inquietudini, di natura nemica-amica, di fisicità tormentata. Questo merita ora una segnala- José Borges Sertào Il Nord-est brasiliano, tra dramma e magia, nelle xilografie del più popolare incisore di "Literatura de Cordel" Con un Hand made di José Munòz Noam Chomsky Anno 501, la conquista continua L'epopea dell'imperialismo dal genocidio coloniale ai giorni nostri Prefazione di Lucio Manisco distribuzione pde Gamberetti Editrice zione particolare perché non è una raccolta: nel "racconto dei contemporanei", attraverso percorsi tematici entro le fonti del primissimo medioevo, Fumagalli cerca e illustra "i segni vistosi nel paesaggio urbano e rurale del morire di un mondo e del nascere di un altro". Mentre la ricerca altome-dievistica, soprattutto in campo archeologico, sta imboccando strade innovative, quest'opera sembra voler fare il bilancio non di ciò che era il passaggio dalla civiltà latina a quella germanica, bensì di ciò che appariva alle paure di intellettuali nostalgici, ai progetti di uomini di corte, alla fiducia di religiosi impegnati. Longobardi e Goti perdono, ma come "lupi ciechi" combattono fino alla fine; gli orizzonti mentali sono dominati dalle solitudini e dalla notte; papa Gregorio Magno è portavoce di un terrore senza rassegnazione; rimpianto e paura lasciano uno spazio, piccolo ma significativo, alla speranza mantenuta viva da Gregorio di Tours; Carlo Magno deve nominare degli addetti appositi alla caccia ai lupi mentre i "monaci contadini" si impegnano a umanizzare un paesaggio che oppone ostacoli terribili alla sopravvivenza quotidiana. Giuseppe Sergi luigi pizzolato, L'idea di amicizia nel mondo classico e cristiano, Einaudi, Torino 1993, pp. 345, Lit 40.000. Far storia di concetti etico-soggettivi, di stati della coscienza, di sentimenti interpersonali ovviamente inseriti nei flussi psicoantropologici della mentalità collettiva ma la cui estrinsecazione segue per lo più percorsi "privati", è impresa sempre ardua; a maggior ragione poi se il campo di indagine si complica sia in termini di distanza cronologica rispetto ai giorni nostri, sia in termini di confronto fra realtà storico-culturali contigue, intrecciate, ma comunque diverse nella loro specificità originaria. Senza sottovalutare tali difficoltà ma anzi precisa e dichiarata coscienza, Pizzolato ha affrontato l'analisi dell'idea di amicizia nell'antichità, tra mondo classico e mondo giudaico-cristiano, risalendo dalla Grecia arcaica fin oltre la tradizionale soglia di ingresso nell'alto medioevo. Un fittissimo e costante riferimento alle fonti, che vengono lasciate parlare e dialogare fra loro senza vincoli di spazio, consente all'autore di evitare le insidie, sempre presenti, di attualizzazione o di concettualizzazione astratta, e di pervenire ad almeno due importanti risultati di riscontro conclusivo: in primo luogo la verifica della centralità che l'amicizia riveste nella concezione antropologica antica, secondo forme però che — a differenza di quanto accade in realtà sociali a noi più vicine — difficilmente riconoscono una separazione netta (nell'espressione di tale sentimento) tra rapporti strettamente etico-personali e rapporti politico-ideologici; ciò del resto in perfetta armonia con uno dei tratti peculiari e individuanti della società antica classica, ove sfera del pubblico e sfera del privato tendono a sovrapporsi e a confondersi con quanto mai limitate zone di esclusiva pertinenza. In secondo luogo la funzione che l'amicizia può svolgere sia, in quanto denominatore comune della cultura classica e cristiana pur nella profonda diversità della concezione teleologica dell'uomo, al fine di rilevare le analogie e precisare, indirettamente ma chiaramente, gli specifici antropologici delle due culture; sia, in quanto oggetto-spia di studio, al fine di verificare la genesi bipartita, classica e cristiana, dell 'ethos dell'uomo occidentale. Sergio Roda