prima e quello d'Italia poi abbiano investito capitali cospicui, non si mettono in moto altri settori, a monte ed a valle, se non in misura limitatissima. Il Piemonte parte tardi nella grande avventura ferro-viaria che a metà del secolo coinvolge tutti gli stati italiani: ancora nel 1848 abbiamo solamente 16 km di binari (Torino-Moncalieri), ma in poco più di 10 anni i km di strada ferrata sono saliti a 700, la più fitta rete di tutta la penisola, con alcune linee costruite direttamente dallo Stato (la Torino-Genova: la Alessandria-Novara-Arona) altre da società private, in cui era largamente presente soprattutto il capitale francese. Cavour fu un deciso sostenitore dello sviluppo ferroviario, pure l'aspetto della «questione ferroviaria» che sfuggì non solo a lui ma a tutta la classe dirigente liberale fu quello propriamente economico: il rapporto tra lo sviluppo ferroviario ed il più generale sviluppo industriale. AI di là dell'unificazione del mercato - considerato come un problema a sé stante e non come superamento di un ostacolo all'espansione che a sua volta pone nuovi problemi - e dei rapporti con il sistema bancario, non si colsero le altre implicazioni che l'espandersi della rete ferrovia-ria comportava. Giustamente osserva il Gerschenkron che le ferrovie in Italia (e l'osservazione vale anche per il Piemonte), a differenza di quanto accadde in altri Paesi, non costituirono il fulcro sul quale fece leva la crescita economica del Paese: le ferrovie rappresentarono uno stimolo assai debole allo sviluppo dell'industria meccanica, come è dimostrato dal fatto che sulle 741 locomotive in funzione nel-l'Italia settentrionale al 1878, 702 erano state importate e solo 39 erano state fabbricate in Italia. Inoltre il mancato utilizzo dell'espansione ferroviaria per gettare una base industria-le, rese più difficile la nostra situazione economica, quando nel decennio 1880- 1890 l'ondata degli investimenti ferroviari incominciò a rifluire. Questo problema si è posto in termini più o meno gravi per tutti i paesi industrializzati, ma da noi fu particolarmente acuto, perché mancava una reale alternativa e con la fine del boom ferroviario veniva a coincidere la caduta a livello internazionale dei prezzi agricoli. Si è detto della presenza del Piemonte nel commercio internazionale e della presenza del capitale francese nel settore ferroviario: all'inizio del decennio 1870-1880 anche il capitale tedesco incomincia ad interessarsi al mercato piemontese e quello svizzero ginevrino intensifica la sua secolare presenza. Il settore che attira maggiormente questi nuovi investimenti è quello cotoniero, che però solo una decina d'anni dopo avrà un lancio deciso. A mediare questo intervento di capitali esteri, trait d'union tra i tradizionali settori economici piemontesi ed i gruppi finanziari stranieri, un gruppo di banchieri, tradizionali corrispondenti in Piemonte di banche francesi e svizzere, che passano dal credito usuraio, per lo più rivolto all'agricoltura ed al commercio, al «credito d'affari». Sono i Duprè, i Ceriana, i Barbaroux, i Defernex, per lo più banchieri filandieri, che si appoggiano chi ai Rothschild, chi ai Péreire, chi alla «Caisse d'Epargne» di Parigi, chi infine alle banche tedesche. Dall'attività tradizionale, di prestito con garanzie di natura reale, di appalto delle imposte, si passa in questi anni allo sconto ed alla negoziazione degli effetti: strumento di questa espansione del settore creditizio, sarà soprattutto il nuovo Banco Sconti e Sete, sorto nel 1863 dalla fusione di due istituti precedenti, sotto l'egida dei Rothschild. L'altro importante istituto è la Banca di Torino del 1847, anch'esso impegnato nel settore serico e soprattutto in quello fondiario. Gli anni tra il 1860 ed il 1875 sono densi di scontri tra i diversi gruppi finanziari, ma tutti si fanno guerra sui settori tradizionali: credito fondiario, speculazione sul debito pubblico, commercio delle sete o della lana; l'unico elemento di novità è la presenza nel settore ferroviario. Comunque dal settore bancario non viene una spinta alla modificazione dell'assetto economico che il Piemonte ha assunto sotto la gestione del Cavour, un assetto fondato su di una struttura agricolo-manifatturiera strettamente integrata: del resto Cavour non si era sforzato di evidenziare questa linea di condotta con la sua personale attività di imprenditore agricolo nella tenuta di Leri? Al di là degli ozii campestri non voleva proprio additare alla borghesia possidente, alla aristocrazia terriera, quale doveva essere il suo impegno per consolidare il nuovo Stato? E così facendo del resto continua-va una tradizione non solo famigliare, ma della parte più illuminata ed avanzata della classe dirigente piemontese, di quella aristocrazia che nel 1785 aveva costituito la Società agraria oltremontana e piemontese e nel 1801 la Società pastorale, per impiantare su ampia scala l'allevamento di merinos spagnoli nella tenuta della Mandria di Chivasso, e con-temporaneamente aveva rilevato la manifattura di drappi di lana posta nel-l'antico convento della Visitazione a Torino (10). In questo impegno nella valorizzazione delle risorse agricole un Cavour ed un Solaro della Margarita si trovavano accomunati, l'uno a Leri, l'altro alla Margarita, dimostrando quale fattore di coesione sociale potesse rappresentare il Piemonte rurale e patriarcale, in cui vi era equilibrio tra le provincie e la capitale (che non raccoglieva nemmeno il 10°a degli abitanti della regione) e tra le classi sociali, unite da una comune vocazione proprietaria. Di quel Piemonte è rimasto il mito, te- 9