una logica da Capitale marxiano, che se gli operai sono cambiati è perché le loro lotte hanno indotto una riorganizzazione degli assetti produttivi, un «salto di qualità» — si sarebbe detto con la terminologia cui eravamo adusi un tempo — di quelli che trasformano la «composizione organica» dell'industria insieme con il suo universo sociale. Ma restano pur sempre delle consolazioni da poco per coloro che hanno creduto a un superamento del taylorismo, guidato e coscientemente perseguito dall'iniziativa sindacale. Facile, allora, concludere, con un giudizio accettabile da tutti per la sua genericità, che il sindacato ha usato male della propria forza. Al punto che ne è derivata una crisi d'identità per quello che si chiamava il «movimento operaio», espressione anch'essa in obsolescenza e non solo per le ragioni che da anni solleva puntualmente Alain Touraine. Un osservatore minimamente avvertito che capitasse oggi, dopo solo qualche anno d'assenza, nel bel mezzo di una riunione indetta, qui a Torino, dalla Cgil o, meglio ancora dal Partito comunista stenterebbe a raccapezzarsi. Non gli ci vorrebbe molto, però, per rilevare un vero e proprio ribaltamento dei valori impliciti nel linguaggio politico: ciò che fino a ieri costituiva un motivo per convalidare l'orgoglio d'appartenenza all'organizzazione, sembra divenuta di colpo causa della debolezza di quest'ultima. Il «cittadino» ha così soppiantato il «produttore» nella scala dei valori: è bene che sia cosi; tuttavia, varrebbe la pena di tentare una spiegazione razionale per tale sovvertimento. Ma tutto sommato si tratterebbe ancora di cose di poco conto, importanti solo per i nostalgici della politica d'antan, di fronte ai mutamenti più significativi che sono intervenuti nella condizione effettiva dei lavoratori. Sarà anche indiscutibile che in fabbrica si lavori ben più intensamente che negli anni settanta, ma lo è altrettanto il miglioramento conseguito dalla posizione sociale dei lavoratori, imparagonabile a quella ante '69. L'evento che pesa davvero, dice Bruno Manghi, è che le porte della «città» si siano dischiuse per tanta gente la quale non vi aveva mai avuto accesso in precedenza; sicché poco importa che a questo passaggio fondamentale siano stati sacrificati i riti e le mitologie dei modelli storici della protesta operaia. vero: ci sono più iy «cittadini», se guardiamo a un livello basilare di qualità civile e dei consumi. Ma il loro numero cade bruscamente, proprio in una configurazione urbano- industriale come Torino, se guardiamo invece alle risorse, non solo materiali, e alle informazioni in loro possesso per poter disporre di un ventaglio più ampio di opportunità di vita e di lavoro, per progettare strategie individuali più ricche e diversificate, per avere più chances culturali e nel tempo libero. Se ci volgiamo a questi indicatori, che danno una misura europea di qualità della vita, non possiamo non avvederci di come il conflitto abbia prodotto un grado ancora insoddisfacente di mutamento nel vivere di molta gente. Una certa patina grigia di Torino, il colore di un indistrialismo omologante nella sua metodicità, il passo meccanico di un capitalismo che sembra talvolta laureato al Politecnico: tutto ciò non è stato forse nemmeno incrinato dal rosso vivido dei cortei che così spesso hanno percorso la città. Colpa di un principio gerarchico radicato nel profondo della società locale, forse, unificata quasi artificialmente dalla disciplina militare più che da ogni connettivo civile, come argomenta Walter Barberis. Ma certo l'azione collettiva non ha teso mai a superare quest'ordine, che anzi l'ideologia era pronta a identificare e valorizzare come «nuovo» e più moderno, mentre era antichissimo. Insomma, il conflitto avrà pure prodotto il cambiamento, ma non c'è dubbio che, a sinistra, esso non è stato coerentemente usato in una strategia indirizzata alla trasformazione, di modo che ci si può anche sentire traditi dai suoi esiti. Ma nessun automatismo garantisce che il conflitto funga da vettore di progresso: per conseguire degli effetti almeno parzialmente voluti, ha bisogno di stare nell'alveo di regole capaci di guidarlo. E invece, quando ci guardiamo alle spalle, vediamo nell'arena delle relazioni industriali un infinito circolo vizioso fra conflitto e contrattazione, un'iterazione defatigante che a lungo andare è sfociata nella disaffezione degli attori. a queste annotazioni, se si pongono nella scia dell'autunno, conducono però direttamente verso questioni che sono attuali proprio perché sono state lasciate irrisolte dall'ondata storica del conflitto industriale. Da questo punto di vista, occorre precisamente sciogliere l'ambiguità dei suoi lasciti, dipanare quei nodi che hanno impedito al conflitto di sprigionare fino in fondo la valenza positiva, trasformatrice, insita in esso e che probabilmente soltanto la sua gestione negoziale, la sua regolazione concordata permettono di sviluppare. Questo compito potrà essere tanto meglio affrontato se troverà il sostegno di un'analisi sostanziale - dunque non corriva né incline alle rimozioni - dell'autunno caldo e del ciclo di storia sociale e sindacale che esso apri. Al punto in cui siamo, è necessaria un'attività di