precedenza, i lavoratori metalmeccanici avevano toccato la punta più acuta degli scioperi con l'indice 61,5 del 1962, che testimonia di un'intensità ancora lontana da quella dell'autunno caldo. ^ietro le cifre relative jj alle ore di sciopero o al ■/^numero dei partecipanti ai conflitti, vi è comunque la realtà di una trasformazione quale l'Italia non aveva ancora conosciuto e che sì innestava sull'estensione delle basì sociali dell'industria avvenuta negli anni cinquanta e nei primi anni sessanta. Qui occorre confermare un giudizio senza il quale altrimenti non può compiere passi avanti nessun serio tentativo di analisi del mutamento etichettato come autunno caldo: lo sviluppo del conflitto che sì verificò alla fine del decennio sessanta — nella fase 1968-72, se accettiamo una periodizzazione diffusa — fu la condizione che rese possibile la crescita delle condizioni civili e materiali di un segmento rilevante della popolazione italiana, sostanzialmente quello che si identificava con il lavoro manuale di tipo industriale. Dì più: il conflitto industriale e sociale fu il veicolo di un'accellerazìone nel processo di cambiamento del corpo sociale italiano che per altra via non si sarebbe prodotto. Incompatibili com'erano rispetto agli schemi predisposti dai programmatori italiani, la crescita salariale e il prevalere di una spinta conflittuale nelle fabbriche non furono cause del declino dell'intento riformatore che ancora permaneva virtualmente nei programmi dei governi di centro-sinistra. Non poteva funzionare un ruolo del sindacato dentro la programmazione senza che le organizzazioni dei lavoratori disponessero di un potere ramificato nelle imprese, tale da dar loro titolo per partecipare con effettive risorse di scambio a un tavolo triangolare. Privo d'autorità e di potere negoziale, il ruolo sindacale poteva, a prescindere dalle dichiarazioni e dagli atteggiamenti formali, essere soltanto esterno, esornativo. Dalla prospettiva dell'impatto sulla società italiana e del suo rinnovamento, l'autunno caldo non ha avuto alternative possibili. In tre o quattro anni l'azione collettiva impresse al mutamento una velocità che nessun'altra iniziativa, politica e istituzionale, avrebbe potuto immettere nei luoghi di lavoro. Si tratta di un esito che deve essere valutato di per se stesso, senza venire riportato o commisurato alla dinamica successiva dell'azione sindacale e delle forme di movimento sociale che l'accompagnarono o vissero nella sua ombra. Così come va tenuto separato dai cicli politico ed economico, cioè dagli effetti che si addensarono sulla rappresentanza politica e sulla sua instabilità e dall'intreccio successivo con l'andamento della crisi industriale. onsiderazioni analoghe Iv fanno si che alcuni leggano l'autunno operaio come una sorta di compimento della modernizzazione italiana, l'elemento soggettivo saldatosi a quello oggettivo costituito dall'industrializzazione di massa del dopoguerra. Ma forse è meglio rinunciare a un'espressione ambigua e multiuso come quella di modernizzazione — in cui si accatastano valenze culturali e civili sugli originari significati economico-sociali — e vedere semplicemente nello sviluppo dell'azione rivendicativa dei lavoratori industriali lo strumento mediante il quale veniva ricercato, e sostanzialmente conseguito, un sistema inedito di diritti di cittadinanza. Il sindacato e il conflitto divenivano vettori di una strategia di inclusione, da parte di un attore sociale tradizionalmente escluso, che era perseguita a livello di massa, anziché individualmente o a gruppi. Un grande movimento della «società civile», dunque? Una forza capace di liberare una estesa dinamica d'innovazione, tanto in quei soggetti tradizionalmente vincolati alla rappresentanza del lavoro, quanto negli altri interessi organizzati, come gli imprenditori, sospinti a dotarsi di sofisticate strategie di risposta? Il nucleo di verità insito in una simile visione rischia tuttavia di essere inquinato dalla sua ambiguità per cui, poiché a beneficiare dell'autunno caldo è la società italiana nel suo complesso, quanto è avvenuto dopo, tutto ciò che di più moderno e civile è rintracciabile nella storia susseguente, è da ascrìvere fra gli effetti indotti da quell'ondata di conflittualità. Eredi dell'autunno, così, finiscono con l'essere un po' tutti: i sindacati, perché riescono a lungo a incanalare le nuove risorse sociali del movimento all'interno delle loro strutture, guadagnando in rappresentatività e potere; il partito comunista, perché da autentico «partito del lavoro» può proiettare la spinta operaia dentro le istituzioni; le imprese e gli imprenditori, perché il confronto con un interlocutore cosi agguerrito come il lavoro organizzato li spinge a battere la strada dell'innovazione di processo, sia attraverso il decentramento produttivo sia attraverso il cambiamento organizzativo e tecnologico all'interno degli impianti maggiori. Il risultato è quello che enfatizza Accornero nel suo intervento, cioè la nascita (e, negli anni ottanta, la scoperta a livello internazionale) del «sistema Italia». Un esito insperato all'inizio, che sembra attuato, in definitiva, con sorprendente lungimiranza: perfino la debolezza dei governi può ora apparire un miracolo di preveggente equilibrio, dal momento che la capacità dì autorganizzazione sociale non viene penalizzata da politiche istituzionali troppo drastiche, così come il basso grado di centralismo delle organizzazioni si rivela un dispositivo efficace per non deprimere gli spiriti vitali che percorrono i distretti industriali. l'eredità dell'autunno ^^ caldo sia differenziata e «ambigua», è già stato detto più volte in passato (per esempio da Stephen Hellman, a proposito delle sue conseguenze sul partito comunista torinese). Ma non al punto da coprire fenomeni così differenziati e da farne il propellente per la ripresa internazionale dell'immagine italiana nel mondo degli anni ottanta. Non foss'altro che per la sorte toccata al protagonista sociale dell'autunno e alle sue rappresentanze sindacali. Chi avrebbe pensato, fino all'80 almeno, che gli operai potessero divenire, in un reportage di indubbia efficacia, «una classe che non esiste più»? Neppure i più pessimisti, d'altronde, avrebbero supposto di poter apprendere un giorno che gli operai di Mirafiori avrebbero recato i loro eahiers de doléances agli ispettori mandati dal ministro del Lavoro, invece che al consiglio di fabbrica. È sempre possibile replicare, naturalmente, che, in fondo, anche questo è un modo per scoprire quei diritti individuali che la tradizione e la cultura del movimento operaio hanno sempre dimenticato a favore dei diritti collettivi. Così come è lecito far notare, con un'applicazione meccanica di 7