di once, ciò in attesa che il Con- gresso approvi la legge che fisserà un termine di tempo al diritto di convertire quei « certificati » in ar- gento. Il 15 luglio la gara contro il tempo era vinta, sia pure a costo di nuove emorragie delle riserve, e il Tesoro americano poteva annunciare il defi- nitivo abbandono della difesa del prezzo dell'argento a 128,3 centesimi l'oncia; in avvenire si sarebbe limi- tato a contribuire ad una relativa stabilizzazione del mercato, venden- do a libera asta due milioni di once la settimana. Il risultato fu che a New York (e in proporzione sulle altre piazze mondiali), il prezzo toc- cò a fine luglio 184 centesimi, ridi- scese leggermente in agosto e set- tembre, per riprendere poi a salire, raggiungendo 220-230 centesimi di dollaro a fine anno, con un aumen- to del 71 per cento dall'inizio. Que- st'anno si è mantenuto più o meno su questo livello; ai primi di aprile quotava intorno ai 210-220 centesi- mi di dollaro. Alla pressione già esistente sul mer- cato dell'argento, alle altre cause di cui abbiamo parlato, si erano aggiun- ti, nella seconda metà del 1967, due fatti nuovi: il lungo sciopero dei cu- priferi (iniziato in luglio e durato fino all'aprile del '68) e la svaluta- zione della sterlina, con conseguen- te corsa all'oro. L'oro e il dollaro L'oro, il « re » dei beni rifugio, ha fatto ancora una volta parlare di sé nel '67 e nei primi mesi di quest'an- no. Da tempo immemorabile l'oro è il simbolo della ricchezza, perché è raro abbastanza da essere prezioso, ma non troppo da non poter esse- re oggetto di scambio (sotto forma di monete o di lingotti); perché è inalterabile dagli agenti atmosferici e resistente agli altri fattori distrut- tivi; perché è bello. A queste qua- lità se ne è aggiunta, da oltre trenta anni, un'altra, sulla quale però non tutti sono d'accordo nel considerar- la tale: è inalterabile anche nel prez- zo che, dal 1934, sui mercati ufficiali, è di 35 dollari l'oncia di fino (circa 703 lire attuali al grammo). Questo perché l'oro, nel sistema mo- netario internazionale, assolve una duplice funzione: è mezzo di paga- mento dei saldi delle bilance dei conti di un Paese con l'estero ed è la base per calcolare i rapporti di cambio delle monete, ciascuna delle quali fissa il suo valore, in rapporto alle altre, secondo un « teorico » con- tenuto aureo, ciò che si indica come « parità ». Per esempio, la parità au- rea della lira è, dal dicembre 1949, di 1,42187 milligrammi di oro fino. Da questa deriva il fatto che il cam- bio con il dollaro è, da quella data, di 625 lire: infatti, la parità del dol- laro con l'oro è di 888,671 milligram- mi, cioè 625 volte quella della lira. Tutto il sistema, il « gold exchange standard » (sistema di cambio oro), si impernia sul fatto che gli Stati Uniti, dopo l'ultima svalutazione del dollaro, che risale appunto al 31 gen- naio 1934, si sono impegnati a con- vertire in oro, al prezzo di 35 dollari l'oncia (più 20 centesimi di spese), i dollari posseduti dalle banche cen- trali dei paesi aderenti al sistema e da certi organismi internazionali. In altre parole, avere dollari, per que- sti Paesi, è come avere oro. L'impe- gno americano, quando venne pre- so, poteva anche essere considerato non troppo gravoso. Primo. Perché, ragionando solo in termini d'affari (e non politici), non si vede perché un paese debba preferire l'oro, che non frutta interessi, ai dollari che, investiti in titoli di Stato americani, rendono il loro bravo interesse. Se- condo. Perché le riserve d'oro ame- ricane erano una volta colossali: an- cora nel 1957 erano pari a 26 miliar- di di dollari, mentre i dollari al- l'estero (quindi convertibili in oro) erano pochi miliardi. Terzo. La pro- duzione mondiale d'oro andava in gran parte a ingrossare le riserve dei Paesi occidentali, Stati Uniti com- presi. Quarto. Perché l'impegno va- leva solo per le banche centrali e non per i privati, come in pratica è successo, invece, con la creazione del « pool » dell'oro, di cui parlere- mo più avanti. Oggi la situazione si è rovesciata: le riserve d'oro americane sono sce- se (marzo 1968) a 10,4 miliardi di dol- lari; la produzione mondiale d'oro viene quasi tutta, quando non tutta, accaparrata dai privati, industriali o tesaurizzatori (si calcola che i pri- vati ne abbiano ora per 20 miliardi di dollari); i miliardi di dollari in possesso dei paesi esteri sono saliti a trenta. Ciò significa che se tutti gli aventi diritto esigessero dal Te- soro americano la conversione in oro, sarebbe, per Washington, la bancarotta. A meno, naturalmente, di abbandonare l'impegno (e quindi mandare all'aria il « gold exchange standard »), oppure di aumentare il prezzo dell'oro (e quindi di svalutare il dollaro). La svalutazione della sterlina È questa speranza, di un aumento del prezzo dell'oro, che scatena la corsa ogni volta che si profila o si verifica qualche novità sull'orizzonte internazionale. E così è avvenuto do- po la svalutazione della sterlina, nel novembre '67. Non si volle tener conto, allora, di un particolare, non tanto piccolo, addirittura fondamen- tale. La Gran Bretagna ha svalutato la sterlina (del 14,3 per cento), per- ché non poteva più sostenere la pres- sione che si esercitava su di essa sui mercati dei cambi, e perché la sua bilancia dei pagamenti continua- va ad essere passiva, soprattutto a a causa del disavanzo tra esporta- zioni e importazioni di merci. A que- sta situazione, pesante da anni, era venuta a dare il colpo di grazia la guerra in Medio Oriente, con il rin- caro di tutti i prodotti costretti a circumnavigare l'Africa anziché pas- sare da Suez (primo fra tutti il pe- trolio) e con il ritiro di molti fondi arabi dalle banche inglesi. Non potendo evidentemente elimi- nare le importazioni, essenziali per la vita della Gran Bretagna, occorre- va stimolare le esportazioni, offren- dole più a buon mercato all'estero: ciò che avviene quando una moneta svaluta (un prodotto inglese da una sterlina, in Italia prima costava 1750 lire, oggi solo 1500). Indirettamente, si veniva anche a dare un piccolo colpo di freno alle importazioni, che Forte Knox: roccaforte dell'oro americano. 4