Introduzione* Dopo anni di successi e di tassi di crescita mediamente più elevati rispetto a quelli degli altri paesi industrializzati, l’economia giapponese ha attraversato recentemente una lunga e pesante crisi recessiva, iniziata nel 1991 e terminata solo nel secondo trimestre del 1994. Una fase recessiva diversa da quelle del passato non soltanto per la durata e l’entità dell’aggiustamento intrapreso, ma anche e soprattutto per le cause che l’hanno determinata e per le trasformazioni strutturali che a essa si sono accompagnate. A differenza delle recessioni passate, indotte prevalentemente da fattori di origine esterna come l’aumento dei prezzi del petrolio o la rivalutazione dello yen, la fase recessiva appena terminata ha infatti origine all’interno del sistema economico giapponese, dove nasce e si sviluppa come reazione agli eccessi della fase espansiva precedente. In particolare, se ne possono individuare le cause principali nella formidabile crescita e nel successivo, rapido crollo dei corsi azionari e del valore degli immobili che si è verificato in Giappone tra la seconda metà degli anni ottanta e i primi anni di questo decennio. In altre parole, una recessione causata prevalentemente dal formarsi di una bolla speculativa, il cui sgonfiamento ha inciso molto negativamente anche sull’economia reale, determinando una forte contrazione dei consumi e degli investimenti. La recessione si è inoltre verificata in un contesto economico, politico e sociale caratterizzato da un’elevata instabilità e da profondi mutamenti strutturali, di cui la crisi del sistema politico, gli evidenti fenomeni di scollamento del tessuto sociale, i cambiamenti nella struttura industriale, nel mercato del lavoro e nelle relazioni economiche con l’estero costituiscono gli aspetti più clamorosi e rilevanti. Una trasformazione che, a nostro giudizio, riflette le mutate circostanze esterne e, soprattutto, il grado di maturità raggiunto dall’economia giapponese, ma che ha generato apprensione, crisi di sfiducia e un diffuso pessimismo tra gli stessi giapponesi, da sempre timorosi di non essere all’altezza dei traguardi raggiunti. Ciò ha indotto non pochi osservatori ad avanzare dubbi e perplessità sulla tenuta e la trasferibilità in contesti diversi di un «modello» giapponese che, rispetto a pochi anni fa, appare oggi meno efficace e soprattutto assai meno attraente. Nel luglio 1994, anche l’autorevole «Economist» si schierava con gli scettici, pubblicando un inserto dedicato al Giappone dal titolo «la fine di un modello». Un inserto in cui si sosteneva che «i punti di forza, che in passato avevano consentito al 1