Introduzione Marcello Pacini Durante tutto il secolo XIX, particolarmente nel periodo fra il 1880 e il 1920, milioni di italiani emigrarono in America. Alcune decine di migliaia erano partite nei cinquant’anni precedenti, altre decine di migliaia partirono dopo, soprattutto negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Soltanto negli anni settanta, quando per la prima volta il saldo fra espatri e rientri diventò negativo, l’Italia cessò di essere un paese di emigranti; peraltro, negli ultimi anni l’emigrazione aveva interessato soprattutto i paesi europei e, di conseguenza, come le migrazioni interne, aveva assunto caratteri ben diversi dall’emigrazione transoceanica. Chi ha voluto dedicarsi allo studio di questa trama ricca, complessa e avvincente di storia collettiva e di vicende individuali si è trovato inevitabilmente di fronte alcuni quesiti. Quale esito aveva avuto la grande emigrazione transoceanica? Che cosa era accaduto agli emigranti e ai loro discendenti? Che cosa restava del processo che aveva coinvolto milioni di persone, frutto di decisioni individuali e di progetti di vita personali e familiari? Quale ruolo gli italiani avevano avuto nel processo di formazione delle nazioni e degli stati del Nuovo Mondo? E, infine, al di là della retorica e del volontarismo poco informato, quali rapporti potevano essere instaurati fra l’antica madrepatria, l’Italia, e le popolazioni di origine italiana nel mondo? Quest’ultima domanda, in particolare, non è affatto recente, ma venne posta autorevolmente quando ancora i grandi movimenti migratori erano in pieno sviluppo. A cavallo fra il XIX e il XX secolo in Italia si discusse infatti a lungo della possibilità di edificare una Grande Italia Transatlantica, nelle pianure argentine, uruguayane e brasiliane. Più in generale, qualcuno si era posto il problema di dare stabilità e ordine al processo migratorio, trasformandolo da un insieme casuale di decisioni individuali, sempre disperate e dolorose, in un progetto politico-economico che poteva risultare utile sia agli emigranti che all’Italia. Questa tesi era sostenuta soprattutto da Luigi Einaudi e dalla rivista La riforma