SETTEMBRE 1998 Marina Cvetaeva Lettere ad Ariadna Berg a cura di Luciana Montagnani ed. orig. 1990 pp. Ili, Lit 24.000 Archinto, Milano 1998 Da una parte la miseria più nera, dall'altra una vita interiore appassio- nata, forte di una ricchezza spiritua- le che nessuna indigenza sembra poter vincere. Sono i due poli lungo i quali si muovono le lettere che Mari- na Cvetaeva scrisse ad Ariadna Berg fra il 1934 e il 1939, cioè nell'ul- timo periodo della sua emigrazione in Francia, il periodo più duro. Il ma- rito della poetessa, Sergej Eetron, è implicato in un delitto politico oscu- ro, e dovrà lasciare il paese con la fi- glia maggiore di Marina, Ariadna, per tornare in quella Russia che aveva abbandonato combattente dalla parte dei bianchi. Sola con il fi- glio minore, Mur, la Cvetaeva si muove in un mondo di povertà e in- comprensioni, Isolata dagli ambienti stessi della emigrazione russa. E all'amica di origine russa che dalla Francia è presto costretta a trasferir- si in Belgio, Marina scrive con un cuore totalmente aperto. Pronta a salire le vette più alte dell'espressio- ne d'affetto e a chiedere senza ver- gogna un prestito, un aiuto in dena- ro, per sé, per il figlio. Attraverso la Berg fa appello a conoscenti e ami- ci che raccolgano soldi per poter portare il figlio al mare. Con una di- gnità che soltanto la consapevolez- za della propria grandezza le può dare: a un poeta è permesso chie- dere tutto. Le impressioni di lettura di Bernanos o della vita della Dun- can, sempre precise, taglienti, si mescolano così alle mille appren- sioni per la realizzazione di un cap- potto con una stoffa speciale che soltanto in Belgio, dove vive Ariad- na, si può trovare. Al lavoro creativo (nasce fra il '38 e il '39 II racconto di Soneóka) si alternano i preparativi per la partenza. La donna lascia la casa nella periferia parigina per tra- sferirsi in un albergo in attesa del vi- sto che la porterà in patria. La cro- naca della vita che emerge dalle let- tere si ferma al momento della par- tenza. Seguiranno, si sa, pochi anni, terribili. Il marito e la figlia arrestati e inghiottiti dal gulag, Marina resiste fino all'agosto del 1941, quando la forza del poeta si spezza di schian- to a Elabuga, in Asia centrale: si uc- cide impiccandosi a una trave dell'isbà dove era sfollata con Mur. Sergio Trombetta Ljudmila Ulickaja La figlia di Buchara ed. orig. 1992 trad. dal russo di Raffaella Belletti pp. 139, Lit 24.000 e/o, Roma 1998 I racconti di Ljudmila Ulickaja so- no saldamente ancorati alla realtà russa del secondo Novecento. I suoi ritratti di donne, affettuosi, com- mossi, solidali, non si dimenticano. Parla esclusivamente di donne Ljudmila Ulickaja. Ne disegna profili che emergono a tutto tondo sullo sfondo di una società spesso anco- ra sovietica. Ne analizza i sentimen- ti, ne segue lo sviluppo delle passio- ni. Le sue protagoniste fanno della vita interiore, dell'individualità un bastione che sembrano voler erge- re a difesa dall'invadenza dei fatti esterni. Hanno un lavoro, una vita sociale, ma tutto resta al di fuori di quel cerchio minimalista nel quale la Ulickaja cala il lettore. In La figlia di Buchara sono dipinti sette ritratti di donne. La Buchara che dà il titolo al- la raccolta è un'orientale, un'uzbeca che annoda con la propria figlia handicappata un legame esclusivo e, sebbene malata, riesce a stare in vita sino a quando un futuro, preca- Leonid Andreev La vita di Vasilij Flvejskij a cura di Paolo Galvagni ed. orig. 1904 pp. 115, Lit 18.000 Mobydick, Faenza (Ra) 1998 Raccontare la storia di un povero prete ortodosso che perde il primo figlio annegato in uno stagno, ne ha un secondo orribilmente handi- cappato, ha una moglie schiava dell'alcool che muore orrendamen- te ustionata nell'incendio che di- strugge la canonica, potrebbe ser- vire per esaltare le virtù di soppor- Scrittore russo, cantore abchazo ALBERTO CASADEI Fazil' Iskander, Sandro di Cegem, ed. orig. 1981, trad. dal russo di Ljiljana Avirovic, pp. 606, Lit 38.000, Einaudi, Torino 1997. L'òpera di Iskander si presenta sotto forma di narrazione orale trasposta in forma scritta, resoconto della vita di una cittadina apparta- ta attraverso le vicende di un suo rappresen- tante tipico e quasi eroico, lo zio Sandro, ap- punto. Il racconto orale però viene filtrato da un cantore consapevole dell'evoluzione stori- ca, che segnala ben presto la distanza crono- logica che lo separa dagli avvenimenti. In questo modo si crea un cortocircuito tra la va- lenza epica e immutabile degli episodi, così come li percepisce la comunità che li traman- da, e il valore che essi assumono nella pro- spettiva della storia di una società allargata e laica. Iskander, nato nel 1929 a Suchumi, si è autodefinito "scrittore russo ma cantore del- l' Ahchazija" : nei suoi testi, in parte già noti al pubblico italiano nelle traduzioni uscite da Sellerio (La costellazione del caprotoro, 1988; Oh, Marat/, 1989) e da e/o (li tè e l'amore per il mare, 1988; La notte e il gior- no di Cik, 1989), alla storia sovietica è riser- vata la satira a volte feroce, mentre al mondo abchazo è rivolto un elogio nazionalistico ma non ottuso, perché sempre legato a una difesa dei valori etici della comunità, motivatamen- te contrapposti a quelli della politica stalinia- na. Nel ciclo dedicato a Cegem, di cui il volu- me tradotto da Ljiljana Avirovic costituisce la prima parte, la storia sovietica equivale al- la collettivazione forzata, con le inevitabili conseguenze sulle tradizioni del popolo ab- chazo. Al di là degli aspetti più facili della sa- tira, ormai quasi scontati (ma ricordiamo che i primi lavori pubblicati da Iskander uscirono negli anni cinquanta su "Novyj Mir" dopo il XX Congresso), colpisce la rappresentazione della costante duplicità di Stalin, con la sua capacità di creare le condizioni in cui un sud- dito anche fedelissimo non possa non diven- tare colpevole. Più che il facile sarcasmo, al- lora, colpisce il tono grottesco-tragico che av- volge tutti gli episodi a sfondo politico. La forma narrativa più convincente in Iskander è quella dell'aneddoto, e infatti il libro è divi- so in episodi distinti, che trovano il loro co- mune denominatore nell'azione di alcuni personaggi particolarmente rappresentativi, a cominciare da Sandro. Sarebbe allora inuti- le riassumere la trama, dato che non è rin- tracciabile un filo narrativo unitario. Ogni avvenimento mette in mostra un carattere proprio del popolo abchazo, "mai servo" e pronto a mantenere una dignità di fronte agli zaristi, ai menscevichi o ai bolscevichi. E so- no poi esaltati i valori dell'astuzia, della ca- pacità acquisita attraverso l'esperienza, della fedeltà alla tradizione collettiva. Ascolta. C'è un universo bellissimo qui accanto. Andiamo. ili mi e.e. cummings mensile di cultura e spettacolo on-line rcwrra jtttwìì rio, scandaloso, sarà assicurato alla povera ragazza. Ljalja è un'intellet- tuale al centro di una famiglia calda e generosa, usa alle scappatelle sentimentali, che da una travolgen- te passione carnale con un ragazzo orientale, compagno di scuola del figlio, esce sconvolta per sempre, come se quell'avventura fosse stata l'estremo, definitivo piacere della vi- ta. Gulja è invece un'attempata si- gnora, ancora bella, che verso la fi- ne dei suoi giorni riesce a cogliere con eleganza l'omaggio sessuale del figlio della migliore amica, un ra- gazzo che da sempre è invaghito di lei. Ma quel che è davvero travol- gente è il sentimento di calore e soli- darietà che si instaura fra Zina e Ka- tia, due barbone che vivono ai mar- gini della società chiedendo l'ele- mosina davanti a una chiesa, e si ritrovano improvvisamente unite, sedute a un tavolo, davanti a una bottiglia di vodka. (s.t.) tazione di un Giobbe ortodosso, descrivere una di quelle edificanti vite di santi che costellano la lette- ratura religiosa non solo ortodossa. Ma nello scrivere La vita di Vasilij Fivejskij nel 1904 Leonid Andreev ha scelto per il titolo il termine "Zizri" e non "zitie", quello abitual- mente usato per la letteratura agio- grafica, e qui sta la differenza. Per- ché la vita del padre Vasilij non è soltanto un fulgido esempio di for- za della fede di fronte alle disgra- zie che il buon Dio ci manda per metterci alla prova. È piuttosto la discesa nel fondo scuro di un ani- mo tormentato, lacerato dai dubbi. Ma non basta, Leon;d Andreev (1871-1919), scrittore baciato dalla fama e dal successo negli anni a cavallo del secolo, considerato dai simbolisti un compagno di strada perché come loro intuisce l'orrore del mondo moderno, è uno specia- lista del genere "orrore e follia". I! racconto dunque, che si distende m^ede Cr'VCcX, - oÓ/^-ltf del N. 8, PAG. 20 sulla lunghezza della "povest", un genere a metà strada fra il raccon- to breve e il romanzo, ci conduce in un ambiente povero, sordido, abi- tato dalla meschinità, dalla follia e dall'abiezione. La narrazione pro- cede per scene madre isteriche, spesso al di sopra delle righe. Un clima gotico, pauroso, di allarme continuo pervade questa riflessio- ne sull'assurda crudeltà della vita umana e sulla conseguente lacera- zione religiosa. Che non è soltanto di padre Vasilij, ma tipica dell'epo- ca in cui Andreev scrive, quando le riflessioni sulla fede, i dubbi sulla autentica spiritualità della chiesa ufficiale agitavano l'intelligencija russa. Soprattutto le ultime pagine hanno una forza straordinaria e collocano il racconto fra le cose più belle e allucinate della letteratura simbolista. (s.t.) Lev Razgon Con gli occhi di un bambino a cura di Julia Dobrovolskaja ed. orig. 1995 trad. dal russo di Claudia Zonghetti pp. 226, Lit 30.000 Tranchida, Milano 1998 Dopo un primo libro dedicato alle memorie del lager, Lev Razgon, scienziato scrittore, mescola qui due generi della letteratura russa del Novecento, il racconto del lager (Salamov o Solzenicyn) con la me- moria ebraica (per esempio Izrail Metter o Efraim Sevela). Lo spunto è un grosso quaderno scritto in cam- po di concentramento all'inizio degli anni cinquanta (prima della morte di Stalin) in cui Razgon rievoca l'infan- zia e la gioventù trascorse nel me- stecko, il paesino della Bielorussia chiamato Gorky. E indirizza ideal- mente questa rievocazione alla fi- glia, di cui ha perso le tracce negli anni terribili delle purghe staliniane e della guerra, nella speranza che un giorno, da quel grosso quader- no, la giovane possa capire chi era suo padre. Perduto e casualmente ritrovato, il quaderno ci riporta in un ambiente che ormai conosciamo bene grazie alla prodigiosa fioritura della letteratura yiddish e tedesca (da Shalom Alechem a Singer a Roth). Anche se l'espediente del quaderno ritrovato suona molto arti- ficiale e stridono gli inserimenti con- temporanei che ci catapultano in Israele, a Mosca o nell'Europa di og- gi, le figure della tradizione ebraica, le abitudini, i luoghi tornano qui con la dolcezza e l'affetto del ricordo, senza il rancore né la sofferenza che la discriminazione e lo sterminio po- trebbero giustificare. Ecco le feste ebraiche, il calore dell'ambiente fa- miliare, la povera serenità che ve- leggia tranquillamente verso il gran- de sconvolgimento, la Rivoluzione, la guerra civile e il potere sovietico al quale tutti i maschi della famiglia aderiscono generosamente e since- ramente. Ma presto un altro scon- volgimento, ben più terribile, si af- faccia sulla scena della storia: la carneficina di Stalin, la guerra, i russi che nei paesi di frontiera passano con i tedeschi e denunciano gli ebrei, vicini di casa di ieri, la famiglia lacerata tra esìli e lager diversi. Co- me al termine di un lungo e procello- so viaggio, Razgon (classe 1908) ri- corda tutto con uno sguardo pacato e distaccato, ma purtroppo la mate- ria resta inerte e stenta a prendere la forma della memoria romanzesca. (s.t.)