SETTEMBRE 1998 Deliziosi orrori e altre estetiche PAOLA QUADRELLI Il gesto, il bello, il sublime. Arte e letteratura in Germania tra '700 e '800 a cura di Emilio Bonfatti pp. 174, Lit 35.000 Artemide, Roma 1997 Il rapporto tra arti figurative e letteratura e il problema della tra- sposizione verbale del fenomeno artistico si pongono al centro della discussione estetica settecentesca e costituiscono il nucleo dei quattro saggi contenuti nel volume curato da Bonfatti - due dei quali pubbli- cati nell'originale versione tedesca. La differenza tra lo stile allusivo concesso alla pittura e la necessaria espiicitazione della prosa è studiata da Wolfram Mauser nel suo contri- buto sulla "spiegazione esau- riente delle incisioni di Hogarth" (1784-1796) diJ.Ch. Lichtenberg. La novità del testo di Lichten- berg, che costituisce uno dei primi esempi di moderna critica d'arte, consiste nell'attenzione antropolo- gica e sociologica che, alla ricerca dell'"elemento specificamente in- glese", non si limita alla descrizio- ne delle incisioni ma cerca di co- gliere il senso complessivo dei cicli di Hogarth, intesi come "romanzi in immagini". In un dibattito estetico che coin- volge il recupero del mondo classi- co, la drammaturgia e le teorizzazio- ni sul sublime s'inscrive la discussio- ne sulla statua del Gladiatore bor- ghese (riscoperta ad Anzio nel 1611) e del Galata morente (riscoperta nel 1623 a Roma), di cui Bonfatti nel suo saggio affronta la vasta e com- plessa ricezione in area tedesca (Lessing, Winckelmann, Mendels- sohn, A. Ph. Moritz, Goethe, Fùssli) e francese (Riccoboni, Du Bos, Di- derot). Considerata da Winckel- mann come esempio di "bellezza naturale" e contrapposta alla "bel- lezza ideale" del Laocoonte e dell 'Apollo del Belvedere, il Gladia- tore borghese fu oggetto di conside- razioni filologiche e teatrali di Les- sing, Riccoboni e Diderot, mentre il Galata morenteha un importante ri- scontro nelle Reflexions critiques sur la poesie et la peinture di Du Bos (1719). Du Bos riscatta la brutalità del soggetto delle statue dei gladia- tori attribuendo ad esse la capacità di estetizzare la violenza: in tal mo- do il Galata morente s'inserisce, con altri protagonisti di scene del terro- re (il condannato a morte, il funam- bolo, il naufrago, ecc.), nell'immagi- nario di scene atte a suscitare "orro- re piacevole". Il saggio di Du Bos, tradotto parzialmente in tedesco da Lessing nel 1755, ebbe una vasta e variegata risonanza in Germania: da Nicolai a Mendelssohn a Lessing. Quest'ultimo critica l'interpretazio- ne data da Du Bos e da Diderot, che in un recupero dello stoicismo ro- mano invitano l'attore ad acquisire "lo stile culminante nella piena pa- dronanza del proprio corpo" (Bon- fatti) riscontrabile nel Gladiatore morente. Lessing, che nel celebre passo sul Laocoonte preferisce l'urlo di Filottete a ogni stoico autocon- trollo, intende criticare con ciò l'eroe protagonista del dramma ro- mano e di quello francese suo erede. Un interessante aspetto della rice- zione del Gladiatore borghese è an- che rappresentato dalla statuaria dei giardini delle residenze settecente- sche (Mirabell, Charlottenburg, ecc.) che presentano numerose ri- produzioni della statua. Il "delighful horror" è al centro anche dell'articolo di Carsten Zelle (in tedesco) che considera la diffu- sione, nell'arte tra Settecento e Ot- tocento, delle scene di naufragio e di battaglia con spettatore. Il piacere di chi osserva al sicuro una scena terribile è esemplificato dal celebre passo lucreziano del "suave mari Gli artisti romantici tedeschi del primo Ottocento a Olevano Romano a cura di Domenico Riccardi pp. 236, Lit 85.000 Electa, Milano 1997 "Olevano nella terra degli Equi" - così la chiamava, sulla scorta di Ti- to Livio, lo storico Ferdinand Grego- rovius - è l'oggetto dei testi di Hel- mut-Bòrsch Supan, Jòrg Garms, Gerhard Kegel e Domenico Riccar- di raccolti in questo volume. Ospitò nella prima metà dell'Ottocento una numerosa colonia di artisti tedeschi, legiata, a studiare e a imparare, consumandovi spesso delle brevi esistenze. Sono, fra gli altri, Franz Horny, affidato a Koch dallo studio- so e mecenate Cari Friedrich von Rumohr, disegnatore minuzioso; e, sicuri, Cari Philipp Fohr, che ritrae i paesaggi di Olevano in disegni ac- querellati dalle ampie campiture; Julius Schnorr von Carosfeld, i cui punti di vista ampi e distesi saranno gli stessi che, di qui a poco, predili- gerà Corot in uno dei suoi soggiorni italiani; Cari Blechen, i cui appunti di diario sono in realtà sintesi perfette e compiute di atmosfere e particola- ri paesistici. Disegni, incisioni, ac- Nuova architettura tedesca MATTEO ROBIGLIO Oswald Mathias Ungers 1951-1990, a cura dello Studio Ungers, con un saggio di Fritz Neumeyer, pp. 273, 116 ili. a col., 722 ili. in b-n, Lit 150.000, Electa, Milano 1998. Primo di due volumi dedicati all'opera di Oswald Mathias Ungers nella collana mag- giore di Electa, questo libro segue di poco l'uscita, per i tipi dell'editore Skira, di una raccolta di scritti scelti (Ungers. La città dialettica, Skira, 1997; cfr. "L'Indice", 1998, n. 2) e di una monografia edita da Zanichelli (Oswald Mathias Ungers, a cura di Martin Kieren, 1997; cfr. "L'Indice", 1998, n. 4), a segnare una rinnovata attenzione dell'edito- ria italiana per l'architetto tedesco. Ungers è figura emblematica dell'architet- tura della Germania del dopoguerra: dall'ini- zio degli anni cinquanta, ancora in piena ri- costruzione, agli anni ottanta della costruzio- ne della nuova città della finanza e degli affa- ri a Erancoforte, fino all'esplosione edilizia della capitale riunita, la Berlino degli anni novanta, si snoda il filo delle sue opere. Ar- chitetto-teorico, grande professionista, Un- gers arriva da posizioni radicali a diventare il più illustre interprete della cultura architet- tonica della Germania ufficiale. La sua ricerca ha origine nella crisi dei ca- noni del razionalismo che attraversa la cultu- ra architettonica europea del secondo dopo- guerra. I "padri fondatori" del Bauhaus - Mies, Gropius, Mayer -, allontanandosi prima della guerra dalla Germania hitleria- na, hanno lasciato il campo al cinismo e alla fretta di una ricostruzione che avviene nelle forme semplificate di un International Style d'importazione. Ancora oggi il viaggiatore può riconoscerne gli esiti negli anonimi edifi- ci commerciali dei centri sventrati e nelle pe- riferie senza qualità di molte città tedesche. Marginale per trent'anni nel dibattito euro- peo dopo l'egemonia degli anni venti e tren- ta, con Ungers l'architettura tedesca ricon- quista la scena internazionale. Proprio dal rifiuto dei modi della ricostru- zione nascono il ripensamento della forma urbana della città ottocentesca e la ricerca sulla composizione dell'isolato urbano. Il lin- guaggio architettonico, inizialmente legato alla lezione dell'avanguardia berlinese, indi- vidua successivamente nella tradizione senza tempo di Tessenow e nel classicismo sempli- ficato della Neue Sachlichkeit i riferimenti di un'architettura moderna che tenta di recupe- rare il filo interrotto della memoria, uscendo dai canoni del razionalismo. Non a caso l'at- tenzione di Ungers si sposterà presto dai ter- reni dell'analisi urbana e della tipologia ver- so lo studio delle regole associative e genera- 4ive del processo creativo dell'architettura, verso la sperimentazione del potenziale euri- stico delle metafore e delle analogie nella progettazione. Dopo la presenza alla Sezione Internazionale di Architettura, XV Trienna- le di Milano - curata da Aldo Rossi-, sono il quaderno di scritti teorici che la rivista "Lo- tus" pubblica nel 1983, Architettura come tema (Die Thematisierung der Architek- turj, e la serie dei progetti a più riprese docu- mentati negli anni ottanta sulla "Casahella" diretta da Vittorio Gregotti, a fare del lavoro di Ungers un riferimento necessario anche per gli architetti italiani. magno", oggetto di contrastanti in- terpretazioni in epoca illuminista. Chiude il volume un lungo sag- gio di Annarosa Azzone, che riper- corre la formazione artistica di Heinrich Lee, protagonista del- l'Enrico il verde di Gottfried Keller (Einaudi, 1992), romanzo qui con- siderato nella sua prima versione (1854-55). Benché nel romanzo siano pochi i riferimenti al mondo artistico coevo, la formazione di Heinrich, sospesa tra soggettivi- smo romantico e realismo classico, attesta l'attento confronto di Keller con i problemi estetici del suo tem- po. Il Gladiatore borghese compare anche nel romanzo di Keller: l'in- contro di Heinrich con questa sta- tua - qui esaltata, come già era sta- to in Winckelmann, per la sua e- semplarità di "bellezza naturale" - determina l'abbandono, da parte del protagonista, della pittura e la sua conversione allo studio del- l'anatomia. che molto prima dei loro colleghi ita- liani scoprirono nel paesaggio e nel borgo medievale della cittadella la- ziale motivi e scorci degni di grande attenzione. Già in alcune opere di Gaspard Dughet, nella metà del Seicento, sono riconoscibili il carat- teristico profilo dei monti di Olevano e i suoi dintorni, ma saranno i miti del primo Romanticismo - la natura incontaminata come luogo di espe- rienza spirituale, la semplicità dei costumi come espressione di vera nobiltà umana - a diffondere la fama di luoghi come Olevano, a cui, tra tanti pregi, si aggiungeva quello di essere abitato da una comunità gioiosa, ospitale e, perché no, di gradevole aspetto. Se Joseph An- ton Koch non fu il primo scopritore del borgo sabino, ne fu certamente il più convinto e attento "conoscito- re", tanto da diventare punto di rife- rimento per i molti giovani pittori che dall'Europa del nord e centrale veni- vano in Italia, con Roma meta privi- querelli, oli, opere note e meno note, alcune inedite, alcune fino ad oggi di incerta attribuzione hanno ritro- vato, attraverso questi studi, il loro comune denominatore in Olevano e la loro matrice nel grande interesse - in questo caso specifico tutto otto- centesco e Romantico - per la pittu- ra di paesaggio. Negli stessi anni in cui Koch e i suoi allievi studiavano amorevolmente la campagna lazia- le, il pittore tedesco Peter Cornelius definiva il genere "una specie di muschio e licheni attaccati al gran- de tronco dell'arte". Sappiamo ora - e con sempre più numerosi docu- menti alla mano - che erano in molti a non condividere il suo pensiero. Anna Villari si. 8, PAG. 30 Figure. Disegni dal Cinquecento all'Ottocento nella Pinacoteca Nazionale di Bologna a cura di Marzia Faietti e Alessandro Zacchi pp. 438, Lit 110.000 Electa, Milano 1998 "... di bella mano". Disegni antichi dalla raccolta Franchi pp. 191, Lit 50.000 Musei civici d'arte antica di Bologna, Bologna 1997 Due mostre di disegni hanno visto parzialmente sovrapporsi, a Bolo- gna, i rispettivi periodi di apertura. La prima, curata dai Musei civici d'arte antica, intendeva presentare al pubblico una importante collezio- ne privata che, per la completezza degli interessi e per la qualità delle scelte, si configura come un patri- monio importante per la città. La se- conda è stata invece proposta con il consueto, appassionato rigore dalla responsabile del Gabinetto dei di- segni e delle stampe della locale Soprintendenza, affiancata da un giovane studioso, e suggeriva un percorso tra i tanti possibili entro le raccolte di grafica custodite dalla Pinacoteca. Entrambi i cataloghi il- lustrano dunque una campionatura di fogli italiani (con qualche ecce- zione oltralpina) dal Cinquecento all'Ottocento. Numerosi potrebbero essere i richiami reciproci, che tro- vano una particolare concentrazio- ne soprattutto intorno a due mo- menti delia storia figurativa locale: sia per la grande stagione del Sei- cento emiliano, sia per la produzio- ne tardo settecentesca legata al no- me dei Gandolfi, il numero delle opere presentate è tale da proporre un quadro d'insieme di alto rilievo scientifico. Se nel catalogo della Pi- nacoteca nazionale troviamo esem- pi importanti dello studio della figura umana di taglio classicista, condot- " to in ambito accademico, in quello dei Musei civici sono molto interes- santi i disegni che trovano diretta re- lazione con decorazioni barocche ad affresco'di palazzi bolognesi. Nella riflessione, iniziata nel maturo Cinquecento, sul rapporto tra inven- zione figurativa e realizzazione tec- nica, e dunque sul disegno come espressione della prima "idea" dell'artista, Bologna ha avuto un ruolo importante in parallelo alla ca- nonizzazione di questi temi da parte del Manierismo tosco-romano. Nel- lo stesso periodo emerge pure la volontà di raccogliere e custodire opere nelle quali si ricerca una trac- cia della personalità stessa del pit- tore: ciò ha permesso la conserva- zione non soltanto di disegni in cui si presenta una composizione finita, destinati magari a essere riprodotti in incisione o in grandi pale d'altare (quelli che spesso presentano la ti- pica quadrettatura utile a riportare il disegno alle dimensioni previste per la realizzazione definitiva), ma an- che abbozzi, studi parziali e provvi- sori, singoli elementi di cui a volte si stenta a riconoscere l'uso effettivo che il pittore ne ha fatto. La fortuna collezionistica dei singoli fogli è dunque un tema di particolare inte- resse che si segue bene soprattutto nel catalogo sulla raccolta Franchi, dove è chiaro come la presenza di timbri e scritte antiche costituisca un elemento qualificante agli occhi dell'amatore moderno. Simone Baiocco