SETTEMBRE 1998 m^ede Cr'VCcX, - oÓ/^-ltf del N. 8, PAG. 27 Un'ipotesi di letteratura rock Una grande penna diservizio della musica, passando attaverso Papa Luciani e Mike Bongiorno LUCA BIANCO Riccardo Bertoncelli Paesaggi immaginari. Trent'anni di rock e oltre pp. 261, Lit. 24.000 Giunti, Firenze 1998 1a critica rock", diceva Frank Zappa, "è fatta da gente che non sa scrivere che intervi- sta gente che non sa parlare per gente che non sa leggere". Chiunque pratichi un poco le rivi- ste di musica pop infatti sa bene come in quelle pagine il gergo spe- cialistico la faccia da padrone indi- scusso: recensioni infarcite di an- glicismi il cui senso risulterebbe oscuro perfino a uno specialista di linguaggi cifrati, apodittiche affer- mazioni sui migliori dischi del me- se, della stagione, della decade, dell'intera storia dell'occidente cristiano e oltre; malcelate insoffe- renze e ridicoli entusiasmi destina- ti a smorzarsi (giustamente) in quindici giorni. Il fatto è che nel pop, come nel calcio, ciascuno ha da dire la sua: ma chitarristi e ca- pocannonieri vanno e vengono a ogni cambio di luna, alternando prestazioni loffie e grandi perfor- mance, e rendendo così impossibi- le la vita a chi, oltre a dover già sobbarcarsi l'arduo compito di ra- gionare per iscritto di qualcosa che è essenzialmente auditivo e fisico come il pop, deve anche star dietro al ritmo frenetico e bizzarro delle novità. Il rock, si sa, è un universo vasto e sfilacciato, una rete piena di buchi attraverso i quali si intravedono le ragioni dell'economia e quelle dell'angoscia giovanile, l'energia demente e frenetica dei Ramones e la mozartiana felicità di certe pagi- ne giovanili dei Beatles, la spocchia intellettuale e la ciarlataneria, le ri- cerche sperimentali più estreme e la pigra acquiescenza ai canoni conso- lidati: il bello, però, è che tutti que- sti elementi spesso convivono, e so- no costretti a farlo nello spazio dei pochi centimetri quadrati di un vi- nile, di un compact-disc o dei tre- minuti-tre che costituiscono la mi- sura aurea della canzone. Né biso- gna dimenticare le istanze della filo- logia: il pop sarà anche frivolo ed effimero quanto si vuole, ma i suoi estimatori sanno essere ossessivi e agguerritissimi collezionisti e colla- zionatori: per restare ai Beatles, che dire della splendida, inesorabile e inesausta critica delle varianti che inevitabilmente si scatena ascoltan- do le tre versioni, di Strawberry Fields Forever pubblicate in Antho- logy II (Emi, 1995)? Difficilissimo, dunque, scrivere di musica pop: così come è difficile scrivere di calcio, di cucina, di pit- tura, sempre che ci si voglia rivolge- re a un pubblico più ampio di quan- to non siano gli specialisti, gli stu- diosi, gli ultrà sfegatati per i quali tutto fa brodo: discografie ipercom- plete e ricette puntigliose, schede tecniche e deliri entusiastici. I paesi anglosassoni (dove questa, costitu- zionalmente, sta di casa) possono vantare alcuni ottimi esempi di cri- tica rock; primo tra tutti l'incande- scente Lester Bangs (Psychotic Reactions and Carburetor Dungs, Serpent's Tail, 1996), che trova nel rock l'ideale colonna sonora per ac- compagnare la propria vita di ec- cessi, vissuta costantemente a fior di pelle; oppure l'attento John Savage che in Punk (Arcana, 1994) rico- struisce attentamente il clima socia- le e culturale dell'Inghilterra degli anni settanta intrecciandolo con la storia dei Sex Pistols e del Punk. E in Italia? A parte certi stimo- lanti interventi su qualche rivista (ultimamente la più interessante è "Rumore"), nel nostro paese la scrittura rock è, a partire dal 1973, indissolubilmente legata al nome di Riccardo Bertoncelli. In quella data infatti uscì Pop Story, il primo volume sul pop di ampio respiro scritto in Italia, il primo libro che parlava di musica leggera senza usare un linguaggio eccessivamen- te carbonaro. Da allora, e fino a oggi, Bertoncelli ha disseminato interventi, articoli, prefazioni e quant'altro in molte riviste musica- li (e non solo musicali) italiane: "Gong", "Linus", "Rockerilla", l'inserto "Musica!" di "Repubbli- ca". Ha curato collane per Arcana e Giunti, ha diretto programmi ra- diofonici. Questo Paesaggi imma- ginari viene finalmente a mettere un poco d'ordine in una produzio- ne tanto vasta quanto frammenta- ta, anche se lo fa in modo non del tutto canonico, sin dalla struttura. Mescolando editi e inediti, Bertoncelli ripropone qui alcuni greatest hits della sua quasi trenten- nale attività, ma lo fa alla maniera dei musicisti: non solo perché i ca- pitoli in cui il libro è diviso vengo- no presentati come altrettanti ed, ma perché i singoli pezzi sono stati sottoposti a un trattamento di ma- nipolazioni, revisioni, o, per dirla con l'autore, "remixaggi" tali da renderli appetibili anche a chi aves- se seguito con pazienza e attenzio- ne il dipanarsi della produzione di Bertoncelli negli anni. Ma il lettore ideale dell'opera è piuttosto il pro- fano, il semplice curioso disposto a lasciarsi incantare dalle molte schegge di questo caleidoscopio rock. Bertoncelli inizia scherzando proprio con i santi: il primo capito- lo è tutto per i Beades, e spicca in particolare il gustoso saggio gastro- nomico in cui Lennon e McCart- ney diventano una stramba ditta di pasticcieri e ogni canzone un dolce diverso, con menzione speciale per il "carciofo candito" di A day in thelife; ma si fa apprezzare anche una risposta a un apocalittico arti- colo di Guido Ceronetti sull'atroce questione della presunta influenza dei Beatles sulla family di Charles Manson all'epoca della strage di Bei-Air. Di simili esercizi di stile, il libro è pieno: un pastiche landolfia- no rende conto bene della fortuna dei Pink Floyd nell'Italia degli anni settanta, mentre Papa Luciani, il papa che ha sorriso una sola estate, recensisce i dischi di Patti Smith. C'è spazio anche per la burla: dav- vero efficace, per chi in quegli anni c'era, l'articolo del 1975 che, lette- ralmente, inventa un disco di Cro- sby, Stills, Nash e Young, con tanto di falso reportage di un incontro con gli autori: pare che all'epoca molti aficionados delle quattro su- perstar, prossime alla beatificazio- ne, ci fossero cascati realmente, co- stringendo la casa discografica a una secca smentita ufficiale. In altri casi, Bertoncelli mette la propria penna e il proprio gusto per l'aggettivo inatteso e l'accosta- mento inusuale al servizio di musi- cisti poco conosciuti e senz'altro piuttosto ostici, e allora la mimesi tra stile e oggetto della scrittura di- venta perfetta: nessuno come lui ha saputo commentare il rock pa- tafisico e stralunato degli america- ni Pere Ubu, mentre stupisce nel libro l'assenza di quello che è il ve- ro maestro dello scrittore, il suo guru, l'angelo custode del bizzarro più volte evocato: Frank Zappa. Forse un bel collage di pezzi zap- piani avrebbe meglio illustrato la qualità della scrittura di Bertoncel- li, ma, si sa, non si può avere tutto. Meno interessanti e, forse, più pre- vedibili le stroncature (l'odiato David Bowie tra i bersagli preferi- ti, ma anche Sting, Springsteen e un inaspettato Aldo Busi); così co- me, probabilmente per una que- stione generazionale, Bertoncelli sbriga un poco troppo frettolosa- mente la recente dance music elet- tronica, tendendo a fare di tutta l'erba un solo fascio di microchip. Anche la musica italiana viene sfiorata, e qui il discorso si fa, in ap- parenza, spinoso. La fama di Ber- toncelli, infatti, è stata a lungo lega- ta a un icastico verso di Guccini, che nella celeberrima L'avvelenata lo accusava, senza mezze misure, di "sparare cazzate". Qui viene rac- I libri di Bertoncelli Pop Story, Arcana, 1973. Un sogno americano, Arcana. Il pop inglese, in collaborazio- ne con Marco Fumagalli e Ma- nuel Insolera, Arcana, 1977. La musica pop. Istruzioni per l'uso, Arcana, 1978. Musica da non consumare, in collaborazione con Franco Bo- lelli (raccolta di interventi ap- parsi su "Linus" negli anni set- tanta e ottanta). Led Zeppelin. Rock & roll graf- fiti, Giunti, 1995 contata tutta la storia, e se non fos- se rigorosamente vera si pensereb- be a un altro scherzo giocato da Bertoncelli ai lettori e allo stesso Guccini. Una recensione ruvida scritta nei primi anni settanta aveva fatto traboccare il vaso dell'ira di Guccini, che si vendicò alla sua ma- niera, prima nei concerti e poi su disco. Seguirono spiegazioni, in- contri, una lunga amicizia: e oggi pare che, ai concerti gucciniani, il nome dello scrittore venga spesso e volentieri sostituito con quello di Berlusconi; "il quale", commenta Bertoncelli, "al di là di tutto è qua- drisillabo anche lui". Ma ancora più divertente il tritti- co dedicato a Lucio Battisti, con puntigliosa esegesi delle liriche: "Lucio Battisti è un maniaco, un virtuoso, un ultrà della rima bacia- ta". E che dire dell'incontro tra John Cage e Mike Bongiorno? Un altro caso in cui la realtà supera an- che la più borgesiana delle finzioni di Bertoncelli, con il compositore (espertissimo micologo) che ri- sponde ai più efferati quiz di "La- scia o raddoppia" con Bongiorno che bonariamente ("ahi ahi ahi si- gnor Cage!") lo redarguisce sulla sua musica "stramba, strambissi- ma": "Era meglio che la sua musica andasse via e lei restasse qui!" Ec- co, forse proprio questa evocazione spiritica degli occhiali di Bongiorno e del sorriso di Cage basterebbe a giustificare il sottotitolo originaria- mente pensato per il volume dal Gianni Brera dei riff di chitarra, dal Roberto Longhi del pop: "un'ipo- tesi di letteratura rock". Dettaglio nazi-rock Valerio Marchi, Nazi-rock. Pop music e destra radicale, pp. 357, Lit 32.000, Castel- vecchi, Roma 1997. La chitarra di Woody Guthrie, uno dei più consapevoli e aspri cantautori della musica americana, recava scritto in bella vista "This machine kills fascists", questa macchina ammazza i fascisti. Molti decen- ni dopo, i punk californiani Dead Ken- nedy s (un nome che è tutto un programma) titolavano una loro canzone con un altret- tanto esplicito Nazi-Punks, Fuck-off!. Nel frattempo, Robert Wyatt colorava con la sua inarrivabile voce L'internazionale, ma la chanteuse tedesco-newyorchese Nico de- dicava una spettrale versione dell'inno na- zionale tedesco Deutschland ùber Alles ad Andreas Baader della Raf; le molte ambi- guità degli anni settanta e ottanta, dal- l'ostentazione di uniformi in cuoio alle svastiche che inconsultamente cortocircui- tavano con le falci e i martelli del Punk in- glese e americano, davano adito al consue- to corollario di scontri e malaugurati frain- tendimenti (mi ricordo che nel 1980 qual- cuno dava dei nazisti ai Ramones per qualche testo sguaiato dimenticando che tutto ciò che i Ramones sapevano del nazi- smo l'avevano imparato nei drive-in dai film semiporno di serie z come Usa la lupa delle SS). Ma, per quanto minoritario, un pubblico di destra ascoltava effettivamente rock: ne sono testimonianza le divertenti e deliranti pagelle ai musicisti che il fumetti- sta fascista Jack Marchal stilava sulle pagi- ne della fanzine di destra "La voce della fo- gna", ripercorse con dovizia di citazioni da Valerio Marchi all'inizio del libro. Al centro della vicenda, ovviamente sta la scena inglese del periodo Punk, e qui Marchi appare largamente debitore del po- lemico saggio di Stewart Home Marci, sporchi e imbecilli (Castelvecchi, 1996). È nell'Inghilterra degli anni settanta-ottanta che si colloca la nascita di Rock Against Communism, poi l'emergere dal fenomeno skinhead (generalmente apolitico o di sini- stra) di un compatto nucleo xenofobo e fa- scista (i famigerati naziskin), e infine il pro- gredire della scena White Power rock attiva (fin troppo) anche oggi. Marchi riesce a di- stricarsi tra i molti materiali deliranti di cui la scena nazi-rock è prodiga: cose che si sa- rebbe tentati di non prendere sul serio, se la barzelletta non si fosse già trasformata, più di una volta, in un killing joke. L'unico rimprovero che si può muovere al lavoro di Marchi è quello di trascurare l'aspetto puramente musicale del nazi-rock: a differenza del citato studio di Home, Mar- chi si limita per lo più a riprodurre stralci di testi, lasciandoci pieni di curiosità: che mu- sica avranno suonato realmente ijanus o gli Amici del Vento, band fasciste italiane degli anni settanta? Di che cosa parlavano le loro canzoni? Come riusciranno i tremendi Ver- deBiancoRosso a scandire su una musica che si richiama al Punk più rabbioso e stra- darlo i loro versi e le loro rime che zoppica- no perfino se li si declama come una fila- strocca? Ultimo appunto: se davvero il web è pieno di siti dedicati al nazi-rock, perché non raccoglierne gli indirizzi in un'apposita sezione? (L.B.)