Idei libri delmese| SETTEMBRE 1997 N. 8, PAG. 9 Oscurità del Male e domestici conforti di Alberto Boatto Guido ceronetti, Cara incertezza, Adelphi, Milano 1997, pp. 264, Lit 24.000. Agisce in Ceronetti un diagnostico del crimine, un prospettore della sciagura, uno speleologo delle planetarie rovine, ma non rintracciamo mai in lui l'ombra possibile di un terapeuta. Lo scrittore non conosce alcun rimedio all'irreparabilità del Male - l'impiego della maiuscola è giustificato dalla radice ontologica, metafisica che possiede la nerezza del mondo -, bensì solo consolazioni tanto più persuasive e perfino efficaci quanto più si mostrano insperate. A me ricordano il consolamentum, 0 solo sacramento amministrato dai catari provenzali ai fedeli di grado secondario prima della morte. E la setta catara è stata letta anche come un'ennesima manifestazione della gnosi: non siamo poi tanto distanti da un autore che è stato definito "un'anima naturaliter gnostica". Inaspettatamente più pietoso di quegli sventurati eretici o, forse, più fortunato - non me ne voglia se gli assegno quest'ultimo attributo -, Ceronetti concede a sé e a noi almeno due conforti. L'uno è costituito dalle parole, quelle di cui fa un uso aspro, infiammato e immaginoso, e quelle degli altri, soprattutto dei mistici e degli scrittori sofferenti e devastati: frammenti, distici di fuoco, aforismi rischiara-tori. Ed è proprio il suo amore per la frase sentenziosa e per il periodo contratto che lo pone in salvo dallo scoglio sempre vicino della predicazione. L'altro consolamentum ha consistenza non solo immaginaria ma concretamente carnale. Questo scrittore minacciato dal peccato della superbia e dalla grande facilità del disprezzo accetta la correzione che gli apporta l'umiltà. Si tratta di una trita, quotidiana umiltà che lo spinge a spartire con le platee la consolazione povera, accessibile del cinema. Evidentemente Ceronetti, che nutre dubbi sulla morte di Dio ma nessuno su quella del cinema, parla del cinema di ieri. Ai suoi occhi si incarna nel volto di Arletty, la protagonista non mai obliata di Les enfants du Paradis di Carnè. Non esiste solo l'oscurità del Male ma anche la morbida oscurità dei cinematografi, su cui splende il fascino delle pupille, delle labbra e delle ciglia della donna. Simile refrigerio dalle pene non si limita unicamente alla finzione. Ceronetti compone un'apologia dell'imprevedibilità dell'amore, una forza di per sé eruttiva opposta alla catena monogamica e depressiva di ogni fedeltà matrimoniale. Che cosa fecero di meglio nella loro stagione gli antichi poeti surrealisti? Del Male in Ceronetti non c'è alcuna previsione ma solo accertamento, indicazione, attrazione spinta fino a una punta d'impuro compiacimento. Non commettiamo il grosso errore di scambiare per un profeta questo rinomato traduttore di testi profetici dell'Antico Testamento. Il disastro non deve affatto ancora sopraggiungere, e meno che mai un redentore che disporrebbe del potere di mutare la consolazione in salvezza. Ceronetti frequenta sempre un Male sì profondo e radicato ma egualmente sempre domestico, appiccicato ai nostri giorni, frequentatore delle nostre strade, nascosto nelle nostre abitazioni, sempre più simili a spettrali machines à habiter dislocate sulle onde di Internet. Per questa familiarità col Male Ceronetti ha trovato una sede appropriata per la sua attività di diagnostico nella pagina di giornale. Se c'è un luogo dove l'orrore e lo spavento dimorano in forma indisturbata e vittoriosa è la pagina sporca d'inchiostro tipografico. Mentre in Tv sono le labbra di ardite telecroniste a rovesciarci le nefandezze accumulate durante le ultime ventiquattr'ore, sul giornale esse si offrono avendo come mediatore solo la scialba scrittura dei redattori. Cara incertezza ancora una volta è una raccolta di articoli pubblicati in precedenza e poi puntigliosamente rielaborati da questo prospettore della parola nelle vesti di scrittore ispirato e di filologo. I temi, pur sempre sorprendenti, non potrebbero appartenere meno alla continuità e alla deriva di Ceronetti. Da Hiroshima, una catastrofe che non ha incontrato il suo nome, alla soppressione di vecchi incurabili da parte di un gruppo molto organizzato di infermiere, dalla messa officiata in italiano al colore giallo di Van Gogh, dalla mostruosità dell'imperatore Tiberio al ricordo dell'insurrezione ungherese, dal corpo di Arletty al ritratto dell'amico Cioran. Una materia rigogliosa e fermentata distribuita in parti quasi eguali fra ispezione del Male e offerta di domestici conforti, forse in numero più copioso del solito da parte di questo inconsolabile. L'omaggio che rende a Ernst Jùn-ger centenario, in costante "contatto col mistero del mondo", intacca ai miei occhi la fruttifera unilateralità della visione di Ceronetti. Un travet dell'insurrezione _di Carlo Madrignani Antonio Moresco, Lettere a nessuno, BollatiBoringhieri, Torino 1997, pp. 178, Lit 35.000. Queste Lettere a nessuno sono una "roba" strana. Non perché vorrebbero scandalizzare o sbalordire. Opere di tal genere se ne sono viste in giro fin troppe e in pochi anni hanno stancato e più ancora annoiato. Ma perché sono pagine senza perno; girano così come capita - si potrebbe pensare che non l'autore ma l'editore le abbia messe insieme per una qualche misteriosa ragione non propriamente letteraria (e neppure - direi - commerciale). Quello che non convince è la volontà ostentatamente decostruzio- nistica, come se si dichiarasse: non faccio il libro perché so "dire" di più e meglio, mettendo giù, senza intenzioni particolari, quanto mi è capitato. Non costruisco - dico, ed è più che abbastanza. Insomma un anti-libro che si propone di surclassare ogni ambizione di letterarietà, al di là di ogni mediazione. Al lettore è lasciato poco spazio di manovra: l'effetto, non so quanto voluto, è quello di appiattirlo, schiacciarlo sul piano della pura referenzialità. Scrivere dunque rivolgendosi al lettore a una dimensione, che guarda, anziché leggere. Una tattica di tanta esasperata angustia risulta, oltre che grigiamente ripetitiva, stancante e snervante. Questo romanzo di un gio- vane povero, che bussa a tutte le porte, per ottenere udienza dai consiglieri dei principi editoriali, aspira al grottesco, ma ha un sapore di stuccoso ribellismo, da anni sessanta, quando bastava una moto, un blusone e inettitudine mentale per credersi nuovi cristi sulla via del Golgota. C'è poi l'elemento altamente sconvolgente di fare nomi e cognomi (ma non numeri di telefono, graziaddio) e portare turbamento nelle famiglie e nella quiete degli alti studi. Espediente debole e piuttosto isterico, tipico di chi minaccia "ora ci penso io a voi, vii razza dannata". Esisterà un lettore che cada in tale trappoletta per sorci di campagna? L'altro versante di questo diario senza contorni è una trepida nostalgia di quando si era brutti, scemi e (forse) cattivi. Qui le cose vanno diversamente, meglio oserei di- re, certo con minor egotismo e vittimismo. La scrittura è un antistile più maneggiato, che elabora ricordi con tono di calma piatta e stranita. L'emergere del passato si trasforma in un imbambolimento regressivo color antracite, fra depressione e disgusto; forse l'autore vorrebbe si pensasse: chi è mai esistito più infelice di questo povero zotico marxista-leninista-linea-ne-ra (o -rossa)? Il discorso non ha, ovviamente, nulla di politico o culturale: sono le vicende il grado zero di un travet dell'insurrezione che si muove fra ectoplasmi di una sperduta provincia all'estremo della vivibilità. Non sottoproletari o nuovi servi della gleba, ma miserabili costretti (non si capisce da chi) a subire le microangherie di un burocratismo idiotizzante (e qui si avvertono fremiti di umore, naturalmente nero). Scavalcando le intenzioni dell'autore, si potrebbe me- ditare sul perché certo Sessantotto debba risultare così gretto e vile e come mai quella memoria "politica" fornisca un'immagine di una società irreale, un vuoto d'insensatezza e immondizia. È una forma di rifiuto che si compiace del suo non-essere e non-divenire, oggettivo corollario di quel revisionismo storico che tutto imbratta per tutto salvare? Non è il caso di analizzare o ipotizzare: il testo presuppone un lettore passivo, svuotato, immerso in un grigiore mentale senza cenni di vita. Così vuole il non-senso di pagine che vanno senza-direzione. Ci troviamo probabilmente di fronte a una pausa postdepressiva di uno scrittore, che ha dato prova di saper costruire e tentare una sua difficile via di narrare. E quanto ci (e gli) auguriamo, appellandoci al vecchio adagio del buco e della ciambella.