L'INDICE ■■□el libri del mese^bj SETTEMBRE 1997 La morte al tempo degli uffici di Gianni D'Elia N. 8, PAG. 8 Il tramonto della luna di Graziella Spampinato Claudio Piersanti, Luisa e il , silenzio, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 157, Lit 25.000. Non credo sia il velo dell'amicizia a farmi dire che questo romanzo di Claudio Piersanti, Luisa e il silenzio, risuona nel lettore come una specie di prosecuzione ideale di uno dei racconti più famosi di Tolstoj, La morte di Ivan Il'ic. La malattia e la morte al tempo degli uffici e della televisione, di una vita grigia d'impiegata che si ammala e decide di non curarsi e di lasciarsi morire, come un animale in disparte, solo piena della sua coscienza che si va formando nel distacco anticipato dal mondo. Là, in Tolstoj, il giovane servo sollevava il dolore del padrone, ritrovando, con un po' di sollievo dal male che era in grado di procurare, la funzione di una socialità naturale che accompagna a morire. Qua, la Luisa di Piersanti è senza legame, e un'orgogliosa solitudine della morte è proprio la sua testimonianza di esistenza/di riappropriazione del morire stesso come ultima forma di libertà. Piersanti, come ogni vero scrittore, sceglie uno stile impostogli dalla lingua e dal tema che si trova per le mani. La grande zona grigia dei rientri dal lavoro, degli appartamenti, delle levatacce mattutine tra auto in coda e zone industriali, insomma tutto il tran tran della si-milvita metropolitana, la paratassi della vita tra le merci, la coordinazione allineante delie azioni e delle frasi urbane, tutto quanto racconta una storia comune e esemplare. L'anonimia, il valore astratto del lavoro fatto bene, i conti della fabbrica di giocattoli: allegorie dell'assurdo e dello spreco, dell'incoscienza subordinata. Eppure, l'insensato contemporaneo giunge a coscienza attraverso la morte in atto di Luisa, una sessantenne divorziata e sola, impiegata in una ditta del nord, o del centro-nord. Ma tutto serve a Pier-santi per una dilatazione allegorica ulteriore, dove la socialità della morte sia denunciata come qualcosa di violento e invisibile (altro che pulp da effetti speciali), di mostruoso, in quanto mera socializzazione burocratica dei corpi malati, illusione della cura, menzogna dell'essere. Il libero indiretto e il monologo interiore sono resi con tocco documentaristico, ed è sempre un esterno che incide sull'interno le sue tracce. Walter, Renata, il vecchio padrone, sono personaggi di contorno che accentuano la solitudine di Luisa. Le sue meditazioni riguardano il mondo esterno nei suoi confronti, il senso di una sconfitta lucida e serena, di una disperazione con sentimenti e memorie che si appannano, epigrammi fulminanti contro le illusioni religiose, altrettanto fulminanti preghiere, sentenze su sensazioni sgradevoli e piacevoli, costante fondo d'ottimismo sensibile e agnostico sopravvissuto dall'infanzia, quando l'anarchia dei sensi domina sul principio di realtà. Luisa, che ha come nemico sociale i ragazzi, i giovani schiamazzanti dell'Apocalisse da bar e motociclette, cerca un silenzio del corpo come protesta radicale di sottrazione dalla storia. Lo trova nella malattia e nella morte, dove il silenzio comincia a parlare. E le parole del silenzio sono il lunghissimo piano sequenza mentale di Luisa, che copre interamente 0 romanzo. Ho letto solo un altro libro così bello e importante, in questo periodo, ed è Mania di Del Giudice. Come Daniele Del Giudice, anche Piersanti sceglie il tema del limite e dell'estremo. Apparentemente, so- no diversissimi i modi di approdarvi: quanto Piersanti riduce l'immaginario al sensibile, tanto Del Giudice fa il contrario. Ma l'esplorazione del sentire è il loro scopo. La terza persona o la prima (nei racconti di Del Giudice) servono come schermi dell'allucinazione. Del Giudice, per parlare della vita, parla della macchina tecnologica. Pier-santi, del corpo vivo, per parlare della società alla fine della storia. La lingua da catalogo, media, grigia, mimetica sul vissuto, identifica se stessa con la comunità e la persona: vita scarna e frase breve, azioni d'abitudine e coordinate alla principale, retorica della paratassi a coprire una vita allineata. Eppure, lo scrittore, e forse più il poeta nascosto in ogni narratore, prendono nella prosodia il sopravvento, e fanno di questa morte raccontata un compimento della parola nel suo silenzio, che arriva con la scansione inconfondibile della falsa prosa, della poesia della frase: "come la voragine nera dei vecchi / film quando si piomba nel passato / o dentro le fauci di una stella morta, / o le montagne russe quando ti manca il fiato". Il tutto non esente da un riso leopardiano, anche ateo, beffardo, che trova nelle pagine del cimitero visitato per comprarsi un loculo, una delle vette graffiami di questo libro scritto benissimo, senza sbavature espressionistiche, che ricorda la morte per storia raccontandola come qualcosa di intollerabile e artificiale, di fronte alla fine delle utopie storiche, facendo indovina- re una poesia della morte naturale, che, come in Tolstoj, dichiari il proprio "è morta la morte". Claudio Piersanti è nato a Canzano in Abruzzo nel 1954. Luisa e il silenzio è il suo quarto romanzo. I precedenti sono Casa di nessuno (Feltrinelli, 1981; Sestante, 1993); Charles (Transeuropa, 1986 e 1989); Gli sguardi cattivi della gente (Feltrinelli, 1992). A questi s'aggiungono i racconti della raccolta L'amore degli adulti (Feltrinelli, 1989) e Cinghiali (Castelvecchi, 1994). Vite comuni, normale infelicità hanno costituito finora la sua materia narrativa. Una sua frase: "Le mie gambe vengono da generazioni di gambe da salita, e non considerano vero camminare il passeggiare in pianura" (nel diario del mese di agosto, in "Panta", 1990, n. 3). ottiero ottieri, De morte, Guanda, Parma 1997, pp. 127, Lit 20.000. È stato osservato da più parti, anzi è diventato un luogo comune giornalistico: quest'ultimo scorcio di millennio, non diversamente da quello che l'ha preceduto, è ossessionato dall'idea della morte. Le novità editoriali ci offrono una sterminata scelta in proposito: abbiamo testi filosofici, romanzi macabri o frivolo-macabri, documentati dossier sulle apocalissi prossime venture. Grande fortuna incontrano poi le riflessioni autobiografiche di maestri ai quali l'età e il carisma morale hanno conferito l'ulteriore mandato di una libera, spesso preziosamente ironica, meditatio mortis. Ebbene, il recente libro di Ottieri non ha nulla a che vedere con tutto ciò. - Com'è noto, l'autore persegue da sempre due complementari ma ben distinte linee di ricerca, la poesia-racconto (in una particolarissima interpretazione: quel che ne risulta, con le parole di Zanzotto, è "un oggetto, bruciante, sghembo rispetto alla norma delle abitudini psichiche") e la prosa saggistico-narrativa, da cui potè emergere un prodotto affascinante e inclassificabile (eppure premiato: premio Viareggio 1966 per la saggistica) come L'irrealtà quotidiana. Gettata nell'uno o nell'altro senso in un parallelismo che esclude qualsiasi confluenza (niente prosa poetica o poesia prosastica, per carità), la sua scrittura si vota a esplorare -meticolosamente, ossessivamente - la mappa della terra di nessuno (detta anche malattia) in cui 0 mondo naufraga nella non-realtà. Ora, in De morte Ottieri torna a misurarsi con lo stesso arrischiato squilibrio tra la coscienza di Sé, ovvero 0 senso corporeo dell'esperienza di esistere (in continuo sconfinamento tra quotidiano ed eterno) e la problematica consapevolezza del limite, cioè dell'inevitabile fine, su cui questa esperienza si fonda. Vista così, la morte non è che il polo estremo di una pendolarità vitale proprio in quanto priva di fondamenti, o di una verità che resta insondabile di necessità, perché interamente versata nel mistero. Al pensiero occidentale la morte ripugna come uno scandalo: parlarne durante le ore d'ufficio può ancora oggi costare il licenziamento per disfattismo, così come non molto tempo fa, nelle stesse trincee di guerra in cui la secca signora celebrava i suoi primi trionfi novecenteschi, poteva costare il plotone d'esecuzione. Per il cristiano è invece il fuoco che continua a forgiare la gloria del Cristo vivente: "Ogni scheggia di morte rimbalza su Dio" è il folgorante incipit. L'autore non teme di mettere alla prova senza risparmio il nudo coraggio della dichiarazione d'apertura: "Io credo di credere". Forse solo questo estremismo (ulteriore incrudelirsi dell'oltranzistica vocazione di Ottieri) denuncia il libro come opera di un vecchio: "Mi avvicino alla morte e fuggo da essa, come un vero tanatofobo e un vero uomo. Sono vecchio ma non penso alla morte solo per questo. Fatte le debite proporzioni, Leopardi reagiva fortemente se gli dicevano che era pessimista perché era infelice". La saggezza non è -non è mai stata - un porto sicuro, essere "vero uomo" comporta anche il rifiuto di vili automutilazioni spacciate per distacco: se "il senso della morte è il più indispensabile al senso della vita", in questo febbrile "tramonto della luna" non ci si aspetti di trovare "secche le fonti del piacer". La seconda parte del libro ha per protagonista un personaggio da romanzo filosofico: l'anziano Quintilio, innamorato di una splendida, giovanissima Lucrezia che lo ricambia con slancio. Egli vive di fronte "al doppio ingresso dell'Amore reale e della Morte reale", che "può essere stato incombente anche in altre stagioni della vita, ma ora è l'estremo paravento da superare". Nel desiderio per Lucrezia Quintilio vive sia il fantasma di una Giorgia amata in gioventù, sia l'ossessivo incombere di un'idea della morte che avrà ragione di ogni figura, come il punto prospettico in cui vengono a confluire e a confondersi tutte le linee. Impegnarsi nel tradire la donna viva con quella fantasmatica, e poi ancora la fantasmatica con la morte, è per Quintilio la forma più autentica di resistenza alla propria fine. Modelli di Lidia De Federicis È allusivo e funebre Luisa e il silenzio, titolo del romanzo di Pier san ti. Silenzio evoca solitudine: ed è la scelta straordinaria di una qualsiasi Luisa, ordinaria impiegata e pensionata, che vuole potersi abbandonare totalmente, e naturalmente, alla morte. Dunque è compenetrato, il silenzio, con La solitudine del morente (1985), titolo italiano di un celebre saggio di Norbert Elias. Nato nel 1897-come Musatti e come (ha scritto Musatti) la psicoanalisi - e morto a più di novantanni, e perciò dopo una lunga pratica di avvicinamento al silenzio, il sociologo e storico Elias torna nell'apertura del libro di Giovanni Zapparoli e Eliana Adler Segre, Vivere e morire. Un modello di intervento con i malati terminali (Feltrinelli, 1997). Elias dissentiva da Philippe Ariès sull'idea che in passato gli uomini morissero "sereni e tranquilli" e Zapparoli s'appoggia alle sue tesi per sostenere che la morte ha costituito sempre un problema sociale. Ho citato titoli eterogenei perché un percorso di letture interessanti, riguardo a questo tema, procede sul crinale fra vita e letteratura (e fra narrazione e psicoanalisi, sociologia, antropologia). E un tema di quelli che rendono visibile l'ambigua distanza, o contiguità e complicità, fra modelli letterari e modelli di comportamento. Piersanti ha scritto un romanzo psicologico, nel quale ci sorprende anzitutto la capacità di oggettivazione dell'autore (nato nel 1954) nel personaggio (donna e anziana). Oggettivazione attraverso la scrittura; o identificazione, la difficile identificazione psicologica del vivo con il morente? Ottieri invece, nel De morte, riprende due forme, il saggismo narrativo e il racconto filo- sofico, del tutto pertinenti a variazioni autobiografiche che vogliano situarsi in un orizzonte speculativo. Zapparoli è medico e analista, e si tiene lontano dai modelli letterari. Ma ha osservazioni che risultano suggestive per i letterati, specie quando siano (anche) pazienti. E il caso di Ottieri, il quale infatti mette nel libro, fra gli interlocutori con cui va ragionando (da Bobbio a Wojtyla), il terapeuta Zapparoli: c'è bisogno del terapeuta, perchè "l'angoscia non è solubile nell'euforia dello stile". Scrittori o lettori, ci incanaliamo nei modelli letterari, cercando in realtà modelli di comportamento. Eraldo Affinati, durante il viaggio simbolico verso Auschwitz in Campo del sangue, mentre ripassa le velleità degli scrittori del nostro secolo e ripete con Roger Caillois che non si può "separare impunemente la causa dell'arte da quella dell'uomo", elenca una quarantina di nomi di suicidi dal 1910 (l'anno di Carlo Michelstaedter) al 1996 (Amelia Rosselli). Sono poeti e narratori ehe hanno rinunciato al lavoro del linguaggio, il loro lavoro, e preferito il "gesto espressivo". Forse il gesto estremo dell'intellettuale è correlato all'ipertrofia dell'io, tipico male - secondo Vittorio Coletti - della cultura del Novecento? Il secolo è finito, ma noi siamo confusi. E nel giro dei pochi libri di cui sto parlando appaiono, del morire, diverse rappresentazioni: o la morte per storia o la maternità funesta della (leopardiana) natura o l'ottimismo relativo della ragion pratica e terapeutica. Appaiono scritture che, per riproporre la causa dell'uomo, oltrepassano le buone maniere con un di più di intensità emotiva; sfiorano il patetismo, o l'allegoria.