N. 5 22 Letterature I sibili dell'ascensore di Marcella Simoni Abraham B. Yehoshua FUOCO AMICO ed. orig. 2006, trad. dall'ebraico di Alessandra Shomroni, pp. 399, €19, Einaudi, Torino 2008 Dopo II responsabile delle risorse umane, ultimo romanzo di Abraham B. Yehoshua uscito in Italia nel 2004, è arrivato a quattro an- ni di distanza Fuoco amico, due anni dopo la pubblica- zione in lingua originale. Se II responsabile delle risorse umane era stato concepito co- me "una passione in tre atti" in cui si cerca- va di "trovare un senso insieme" alla dramma- ticità e all'oscurità del periodo della seconda intifada, con Fuoco amico siamo coinvolti in un "duetto" che ci dà il polso della società israeliana contempora- nea attraverso la storia e le vicende quotidiane di quattro generazioni di una famiglia qual- siasi: la famiglia Yaari. E, misura- to attraverso di essa il polso della società israeliana è debole e stan- co, minato dall'interno, da quello stesso fuoco amico che, nel rac- conto, ha ucciso il giovane Eyal. Se la morte del ragazzo altro non è che l'ennesima variante di uno dei miti e dei temi fondanti della letteratura israeliana (l'aqe- dah, il sacrificio di Isacco e quin- di il sacrificio dei figli nel nome della fede dei padri), questo romanzo è permeato dall'ansia di disgregazione personale e col- lettiva che le quattro generazioni della famiglia Yaari affrontano in maniera diversa. Di fronte all'esempio della generazione testarda dei padri fondatori, i quali, pur vec- chi, malati e ormai assistiti da badanti stranieri, si ostinano a far sì che le promesse fatte in gio- ventù vengano mantenute, le generazioni successive sono proiettate in un'angosciosa ricer- ca di qualcosa che possa frenare le spinte centrifughe che percor- rono la società israeliana: Shuli, la madre di Eyal, è morta in Africa, uccisa dal dolore per la perdita del figlio; Yirmiyahu, il padre, ha scelto un esilio ostinato in Tanza- nia, lontano da Israele, dalla poli- tica e dal mondo ebraico in gene- rale; Moran, cugino di Eyal, non si presenta neanche alla chiamata di riservista per il fastidio di dover dare troppe spiegazioni. Efrat, la bella moglie di Moran, che a fatica riesce a mandare avanti la famiglia, si lancia nella notte delle feste e delle discote- che di Tel Aviv. E questa stessa città - e la famiglia con cui ha un rapporto difficile - che la sorella di Moran, Nofar, ha lasciato dopo la morte del cugino prediletto Eyal, per rinchiudersi nella più triste Gerusalemme dove lavora come infermiera. E mentre Daniela, madre di Moran e Nofar, parte per la Tanzania alla ricerca degli ultimi attimi di vita della sorella Shuli, ad Amotz, suo marito, uomo pratico e inge- gnere progettista per una ditta di ascensori, vengono affidati per una settimana (di Hanukah) que- sta famiglia, con le sue necessità quotidiane e, insieme, un proble- ma da risolvere sul lavoro: gli inspiegabili sibili e ululati che provengono dai vani degli ascen- sori di un grattacielo a Tel Aviv e che ne terrorizzano gli inquilini, ormai convinti che l'edificio sia popolato dagli spiriti. Questi ultimi sembrano aver trovato nei vani degli ascensori l'habitat ideale per emergere dalle fondamenta degli edifici, per fuoriuscire da dove si era ritenuto di poterli imprigionare per sempre con una colata di cemento. E se uno dei privilegi della letteratura resta lascia- re libero il campo all'interpretazione e alla fantasia del lettore, ciascuno secondo la propria conoscenza e immaginazione, gli spiriti che ululano attraverso le crepe di una colata di cemento imperfetta pos- sono riecheggiare situazioni diverse e tutte significative per la società israeliana e per il suo rap- porto con il passato più o meno recente: la distruzione della cul- tura e della storia palestinese durante e dopo il 1948, o poco più indietro, le tracce di una cul- tura ebraica inghiottita nella Shoah, o ancora, le voci dei cadu- ti nelle diverse guerre di cui si compone il conflitto israelo-pale- stinese. Non è un caso che chi si impunta perché il problema dei sibili venga risolto sia il padre di un altro giovane soldato caduto in battaglia; non è un caso che gli spaventosi ululati che turbano gli abitanti del grattacielo passino attraverso ascensori, un elemento tecnico che indirizza la nostra fantasia verso la comunicazione tra aree diverse, volendo anche tra l'inconscio e la mente; e anco- ra non è un caso che a risolvere il problema sia chiamato il pratico Amotz Yaari con l'aiuto di una persona che, grazie all'orecchio assoluto, è in grado di capire con esatta precisione ciò che ascolta, facoltà che gli altri personaggi del romanzo sembrano aver perduto. Ma Fuoco amico è soprattutto un "duetto" che ci fa ascoltare questa storia con due voci, una che narra il frenetico scorrere degli avvenimenti in Israele, e un'altra che dalla Tanzania li riflette con calma assoluta, così da far apparire questi due luoghi opposti e complementari. All'in- quietudine di Israele si oppone un'Africa rappresentata come calma e statica; alla culla del monoteismo si contrappone la culla dell'umanità; se in Israele si cerca razionalmente il motivo del- l'ululare degli spiriti, in Africa se ne riconosce la muta presenza in ogni oggetto. Contro l'affannarsi quotidiano degli Yaari in patria sta il fermo rifiuto di Yirmiyahu, il padre del soldato ucciso dal fuoco amico, che ha scelto di tagliare ogni rapporto con il proprio paese e con il suo passato, con la sua cul- tura, e soprattutto con l'uso politi- co che di questi ultimi viene fatto. Ed è quindi dal ventre dell'A- frica che, prevalentemente per bocca di Yirmiyahu e attraverso il suo dialogo con Daniela, emer- gono le riflessioni di Yehoshua su alcuni dei temi che più gli stanno a cuore: l'identità ebraica, il rapporto tra la diaspora e Israele, chi è ebreo, il conflitto israelo-palestinese, la necessità sempre più urgente di stabilire dei confini che separino israelia- ni e palestinesi una volta per tutte e il ruolo dello scrittore in tutto questo. Visti dall'Africa, israeliani e palestinesi assomi- gliano a due animali selvaggi che si puntano con astio, che sono "ipnotizzati l'uno dall'altro", che non trovano il coraggio di allon- tanarsi e che rispondono solo a quello che sembra essere il pro- posito per cui sono stati creati: avere la meglio l'uno sull'altro. E se fino a oggi - per esempio in 11 signor Mani o anche in La sposa liberata - Yehoshua aveva sem- pre sfumato le sue tesi politiche, che aveva invece espresso con più decisione nella saggistica, per esempio già in Elogio della nor- malità o, più recentemente, in Antisemitismo e sionismo, queste sono ben presenti in Fuoco amico, come se lo scrittore che aveva "rinunciato alla [sua] voce per aprire la (...) scrittura a quel- le dei personaggi" si sentisse ormai libero di riappropriarsene. Yirmiyahu, che come lo scrit- tore ha settant'anni, sente di avere "il diritto da allontanar[si] da tutto" per poter vivere fuori da "una nazione che è diventata una specie di tornio", un paese estenuato alla ricerca di defini- zioni per sciogliere l'esasperante rebus dell'identità ebraica, in cui la sofferenza individuale e collet- tiva viene utilizzata in chiave politica. Ed è infatti Yirmiyahu che - dopo aver varcato i confini della linea verde e quelli della legalità in un'investigazione per- sonale per ricostruire la dinamica dell'uccisione del figlio - è pron- to ad accogliere la spiegazione di una giovane di Tulkarem del per- ché ai palestinesi non sia rimasto che l'odio nei confronti di Israele e degli ebrei: "Ma voi, anche se siete bravissimi ad intrufolarvi in mezzo agli altri, non vi integrate e non lasciate che gli altri si inte- grino con voi (...). Questa non sarà mai la vostra patria se non saprete mescolarvi a tutto ciò che vi si trova". Da questo quadro a tratti sconfortante emerge il ruolo che Yehoshua sembra aver ritagliato per sé in quanto scrittore, vestendo non a caso i panni del capo di uno scavo archeo-antro- lopologico: l'aspirazione solo apparentemente modesta di essere un testimone nella staffet- ta evolutiva, e forse di essere proprio quell'individuo che, senza neanche accorgersene, riu- scirà a trasmettere quel "'qual- cosa' con una piccola aggiunta" che porti i suoi discendenti a sentirsi più incuriositi dell'am- biente circostante e più " uman [i] in tutti i sensi ". ■ msimoni?unìve.it M. Simoni insegna storia dell'ebraismo all'Università "Ca' Foscari" di Venezia Meglio morire per la verità di Chiara Lombardi Michael Ondaatje DIVISADERO ed. orig. 2007, trad. dall'inglese di Barbara Bagliano, pp. 281, € 17,60, Garzanti, Milano 2008 Il titolo del romanzo, scritto dall'autore del Paziente in- glese (Garzanti 2004; Booker Prize 1993, da cui il pluripre- miate film di Anthony Min- ghella), è chiarito a un certo punto della storia da uno dei personaggi principali, Anna: "Io vengo da Divisadero Street. Divisadero, 'separazio- ne' in spagnolo, era la strada che tracciava la linea di confine tra San Francisco e i campi del Presidio. O potrebbe derivare dalla parola divisar, che significa 'osservare qualcosa da lontano'. (Nella zona c'è un rilievo che si chiama LI Divisadero). Un punto dal quale si può guardare il paesaggio in lon- tananza". Divisadero come quel- la stradina di Parigi di cui si parla nei Misérables, inventata da Vic- tor Plugo "a beneficio di Jean Valjean, per permettergli di sfug- gire ai suoi inseguitori". E il luogo dell'arte come rifugio, "luogo in cui possiamo nascon- derci, dove una voce che parla in terza persona ci protegge". E un principio che si ispira a Colette (è detto esplicitamente) e a Nietzsche, in quella citazione che incornicia e "battezza" il romanzo a partire dalla prima pagina per tornare nell'ultima: "Noiabbiamo l'arte (...) per non morire a causa della verità". Anna fugge dalla verità per rifugiarsi nell'arte, appunto, e assieme a lei scorre la storia rac- contata in questo romanzo. Nella prima parte ci troviamo nella California degli anni settanta, in una fattoria di Petaluma dove riecheggiano ancora i sogni dei mitici cercatori d'oro. Qui Anna cresce assieme al padre, alla sorella adottiva Claire, trovatella raccolta nello stesso ospedale dove sua madre moriva di parto, e Coop, un lavorante, anch'egli orfano. Fra i tre si stabilisce un rapporto strettissimo, una felice simbiosi fra le due sorelle con l'ammirazione di entrambe per l'amico e maestro di vita, il taci- turno Coop, una sorta di guar- diacaccia Mellors banalizzato e modernizzato. La verità infrange l'idillio d'amore, sbocciato in Le nostre e-mail direzione@lindice. 191.it editing@lindice.com redazione@lindice.com schede@lindice.com ufficiostampa@lindice.net abbonamenti@lindice.com modo improvviso e incontenibi- le, tra Anna e Coop, quando 0 padre di lei li sorprende l'una tra le braccia dell'altro ("Ad Anna parve che, qualsiasi cosa avessero dentro, fosse passata dall'uno all'altra") e li divide per sempre. Nella seconda parte - che comincia con un titolo come II rosso e il nero - siamo negli anni novanta e lo sfondo è la guerra del Golfo. Coop è un abile gio- catore di poker, l'amante di una fascinosa eroinomane, ma presto perderà la memoria in seguito a una rissa fra tipi poco raccoman- dabili e si ritroverà tramortito tra le cure di Claire, che nel frattem- po ha trovato un impiego presso un avvocato di San Francisco. Più evane- scente resta il perso- naggio di Anna, mime- tizzata all'interno della storia di Lucien Segu- ra, uno scrittore che ha abitato la casa di un piccolo villaggio dei Pirenei dove ora vive lei. L'indagine di Anna intorno a questo scrit- tore sviluppa a sua volta una storia di amori e di incontri, di separazioni e di dolo- re con cui la propria vicenda si sovrappone e si intreccia, e che finisce per essere senz'altro più riuscita della prima. Attraverso un intreccio esage- ratamente traboccante di perso- naggi, di situazioni, di cortocir- cuiti cronologici e narrativi, tor- nano alla luce antiche questioni come il rapporto fra arte e vita, l'identità che si costruisce attra- verso l'intermittente reciprocità dei rapporti, il desiderio e la nostalgia, il continuo cercarsi trovandosi spesso altrove, in altre storie, in altre persone che si affacciano come specchi ai ricordi passati. Si tratta di motivi che però non conducono a un risultato molto convincente, soffocati all'interno di un variegato feuil- leton con strade che si dividono per ricongiungersi, orfani che si perdono di vista, padri violenti e implicitamente incestuosi e amplessi consumati sotto i tem- porali californiani e tra le bru- ghiere dei Pirenei. Il tutto farcito con molte citazioni letterarie che stentano ad amalgamarsi e a scomparire nel tessuto della sto- ria. Ma soprattutto l'originalità fatica ad affermarsi e il linguag- gio elegiaco, che patisce la pres- soché totale mancanza di ironia, fa slittare molte situazioni, già di per sé talvolta stereotipate, verso una forma di involontaria comi- cità. Eppure, tra paesaggi sugge- stivi e scene romantiche, il romanzo (come molti altri, oggi) sembra costruito nei minimi det- tagli per essere immediatamente trasformato in un film di succes- so. Può darsi che ciò avvenga. Ma con un po' di caustico sarca- smo si potrebbe dire che se que- sta è arte, forse è meglio morire a causa della verità. ■ chiaralombardi?libero.it C. Lombardi è ricercatrice di letterature comparate all'Università di Torino